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Cristina Bowerman, chef, lotta per smascherare il maschilismo in cucina

Nonostante 20 anni di carriera e una Stella Michelin, a Cristina Bowerman capita ancora di essere considerata da clienti e colleghi una «cuochina». Per questo ogni giorno lotta per smascherare il maschilismo in cucina. Anche sollevando una padella

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«Quando si sente la parola chef a chi si pensa? A un uomo. Serve invece un occhio più attento alle donne e al loro valore!».

A un uomo chiedono dell’organizzazione del lavoro o della sperimentazione di nuovi piatti. Da una donna si vuole sapere quale ricetta preparare per i bambini a casa

Cristina Bowerman, chef contro il maschilismo in cucina

A parlare con la caparbietà che la contraddistingue è Cristina Bowerman, 56 anni, 1 stella Michelin, 3 forchette Gambero Rosso, una delle pochissime chef riconosciute a livello internazionale, vera role model per le donne nella ristorazione. La sua avventura professionale si è sviluppata lungo binari fuori dall’ordinario, come ha rivelato lei stessa in un libro scritto anni fa: Da Cerignola a San Francisco e ritorno. La mia vita da chef controcorrente (Mondadori).

La vita di Cristina Bowerman

Nata nel piccolo paese della Puglia citato nel titolo, dopo la laurea in Giurisprudenza si trasferisce in California per continuare gli studi legali. Ma, appassionata di cucina da sempre, in America consegue la laurea in Culinary Arts. Nel 2005 si trasferisce a Roma e, dopo una prima esperienza al Convivio Troiani, arriva al Glass Hostaria a Trastevere. Proprio qui è stato presentato un altro libro che le sta molto a cuore: Senza giri di boa (PaperFirst), firmato da 20 giornaliste che hanno raccolto le storie di tante donne vittime di ingiustizie nel mondo del lavoro.

Cristina Bowerman, perché iniziative come “Senza giri di boa” sono importanti?

«Perché finora si sapeva di certi soprusi ma non se ne parlava abbastanza o, peggio, non se ne parlava per niente. Bisogna invece dare voce a queste donne, diffondere la consapevolezza del problema e stimolare un cambiamento culturale».

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Il maschilismo in cucina

I dati della Fipe, la Federazione italiana pubblici esercizi, dicono che le donne nella ristorazione sono il 51%, ma le chef stellate sono pochissime.

Lei come è riuscita a diventare chef?

«È stata dura, tanto che ancora oggi è difficile vedermi riconosciuta nel mio ruolo. Un esempio? Tempo fa durante una ripresa tv il regista si è voltato verso di me, che ero in giacca bianca, e ha chiesto: “Dov’è lo chef? Con chi devo parlare?”. Non sono certo l’unica del mio settore ad aver incontrato ostacoli. E, in generale, le donne tendono a essere messe in secondo piano nel mondo del lavoro».

La presenza maschile ai vertici in cucina viene percepita come più “normale”. In che senso?

«Glielo spiego raccontandole un’altra cosa che mi è successa da poco. Alla fine della cena, quando sono andata al tavolo a ringraziare una coppia di clienti, abbiamo iniziato a conversare. Mi hanno chiesto da quanti anni fossi qui e al mio “Da 17 anni” erano davvero stupiti. Dopo tante domande, il loro atteggiamento nei miei confronti è cambiato molto, come se avessero assistito a una rivelazione. Ora, è vero che la mia vita è fuori dall’ordinario, ma non sono una mosca bianca. Ci sono tante professioniste come me: penso, per esempio, a Rosanna Marziale che da oltre 20 anni porta avanti il suo ristorante (Le Colonne Marziale, a Caserta, ndr). Si tratta di un’azienda e una tradizione culinaria notevoli».

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Questa percezione falsata ce l’hanno solo i clienti?

«No. Ancora oggi, dopo tanti anni di esperienza, quando parlo ai meeting, tendo a essere considerata un po’ una “cuochina”. Se uno chef uomo è relatore a un convegno, viene percepito come autorevole in modo automatico. Mentre per noi donne è sempre faticoso. A un’imprenditrice della ristorazione non si chiede dell’organizzazione del lavoro o della sperimentazione di nuovi piatti, ma delle ricette da proporre in casa o ai bambini. Permane l’idea che le donne intraprendano questa carriera un po’ per sbaglio, creando così una divisione netta tra la donna imprenditrice chef e la donna non chef, cuoca. Questa mentalità va scardinata, c’è ancora tanto lavoro da fare».

È vero che si arrabbia quando in cucina la vogliono aiutare a sollevare anche cose leggerissime?

«Gli uomini che lavorano con me ormai lo sanno e non lo fanno. Ma quando mi trovo a lavorare in contesti in cui  non mi conoscono, dove la donna è ancora percepita come il sesso debole, e in alcuni Paesi è ancora molto evidente, succede. La mia risposta è già pronta: “No grazie, se ho bisogno chiedo aiuto”».

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Sempre molto cortese, ma ferma. Perché?

«Perché dietro quel comportamento apparentemente da gentiluomini, magari nato anche dalla buona fede, si nasconde un rapporto di subordinazione paternalistico. Se permetto a qualcuno di prendermi la valigia o il tegame, è come se fossi inferiore rispetto alla persona che mi aiuta. Chiederò io stessa aiuto solo e soltanto se ne avrò davvero necessità».

Cosa suggerisce alle giovani che vogliono seguire le sue orme?

«A dire la verità, io non dispenso consigli. Penso che ogni persona debba trovare la sua strada. Posso solo invitare tutte a seguire la propria passione, non tanto per diventare professioniste ma perché solo seguendo la propria passione ci si sente in asse con se stesse».

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