Uno studente di 17 anni di Carpi prende un 6 in condotta per aver criticato su Facebook il programma di alternanza scuola lavoro a cui ha partecipato. E il caso diventa subito politico: i parlamentari si schierano col ragazzo o col preside, a seconda che vogliano criticare o difendere il programma introdotto dalla buona scuola. Gli intellettuali urlano alla lesa libertà di espressione. E un imprenditore umbro offre 200 euro di borsa di studio allo studente per trasmettergli il valore del diritto alla critica, che la scuola avrebbe violato.
La vicenda mi colpisce parecchio. Parto con una considerazione nel merito della critica espressa dal ragazzo. Non sono riuscita a leggerla nella sua interezza, ma so che è stata scritta il primo giorno di “lavoro” e conteneva questa frase: «Un’ora e mezza di viaggio in una direzione per otto ore di lavoro da operaio-massa, con una mansione apprendibile da chiunque e in 15 minuti». Ecco, se c’è qualcosa a cui serve il programma di alternanza scuola-lavoro, è proprio a liberare i giovani da quell’involucro di presunzione con cui si affacciano all’età adulta e che sicuramente è servito loro, nell’adolescenza, per costruire la propria identità. Serve a far capire che il lavoro non è svolgere una mansione, ma entrare in un’organizzazione, rispettare gli altri e i loro ruoli, considerare importante qualsiasi attività, la più umile come la più complessa, scoprire giorno dopo giorno che i risultati si ottengono grazie alle relazioni e all’armonia di un gruppo teso all’obiettivo comune, e non per le performance dei singoli. Lavorare è molto di più che infilare un gesto dopo l’altro.
Faccio una seconda considerazione sul luogo in cui questo ragazzo ha deciso di esprimere la sua critica: Facebook. Qualcuno ha detto che la sanzione della scuola è stata intimidatoria: mai nessuno avrà più il coraggio di alzare la testa. Ecco: “alzare la testa” oggi è diventato scrivere un post su Facebook. Ossia un gesto d’impulso, che richiede poco sforzo, minimo pensiero e che compiamo protetti da una tastiera, senza renderci veramente conto di ciò che stiamo facendo, ma che ci restituisce l’illusione di essere stati coraggiosi. Il punto è che ci vuole davvero coraggio per criticare su Facebook, e non solo quello: ci vuole preparazione, argomentazioni, prove, compiutezza di pensiero e magari un’esperienza più lunga di un giorno. Soprattutto se si decide di attaccare una scuola e un’azienda. Una critica superficiale e approssimativa dopo un primo giorno di lavoro, specie se riceve una risonanza immeritata per la sua sostanza, può ledere la reputazione di un’impresa che ha deciso di rispondere a una chiamata dello Stato e demotivare altre aziende dal fare altrettanto. Può rovinare la nomea di un istituto e quella di chi ci lavora, minando posti di lavoro reali e non virtuali come le parole che quel ragazzo ha pensato di scrivere. Prima di Facebook, ci sono altri luoghi in cui la critica avrebbe potuto esprimersi: il consiglio d’istituto, i professori, il preside. Ma forse, nella distorta percezione che abbiamo dei social network, questi luoghi reali ci richiedono troppa fatica, troppo coraggio.
La terza considerazione riguarda la sanzione ricevuta dal ragazzo. Sulla quale non riesco a esprimermi. Non conosco i regolamenti delle scuole, non so come nasca un 6 in condotta o un’espulsione e può essere che sia sbagliata. Ma che tra i compiti della scuola ci sia istruire i giovani sul valore del lavoro e sui confini alla libertà di espressione che ogni mezzo impone, su questo non ho alcun dubbio.