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La pallavolista resta incinta e la società le chiede i danni

Lara Lugli racconta di aver firmato, come tante donne nello sport, la clausola di gravidanza. Le atlete non hanno veri e propri contratti ma scritture private, che vengono stracciate se restano incinte. O impugnate, come nel suo caso. Un malcostume diffuso che scoperchia tante situazioni simili anche in altri ambienti di lavoro, come emerge dai commenti sui social

Nel Paese che è tra i più avanzati nella tutela della maternità e della donna che lavora, succede anche un caso come quello della pallavolista Lara Lugli, citata per danni dalla società Volley Pordenone per cui giocava perché avrebbe taciuto la possibilità di diventare madre al momento di firmare il contratto e, una volta rimasta incinta, avrebbe danneggiato la società privandola della sua presenza. L’atleta nel marzo 2019 resta incinta, quindi non può proseguire il campionato. Il contratto viene sciolto e poco dopo subisce un aborto spontaneo. Dopo due anni, in risposta all’ingiunzione di pagamento dello stipendio di febbraio (in cui aveva giocato), riceve una citazione per danni per i mancati guadagni della società e per non aver onorato il contratto.

Molte aziende chiedono ancora le intenzioni sulla gravidanza

La pallavolista ha scoperchiato un pentolone che ribolle ben oltre il mondo dello sport: quello del diritto alla maternità della donna che lavora, un diritto acquisito per il nostro ordinamento, tutelato perfino dalla Costituzione, ma non altrettanto per la società. Il suo non è un caso unico, tutt’altro: dopo la sua denuncia su Facebook, e la notizia ripresa da tutti i giornali, sui social donne e uomini raccontano di aziende che non assumono giovani donne per evitare le gravidanze, di datori di lavoro che fanno firmare scritture private in cui la donna si impegna a non restare incinta, di compagnie aeree che impediscono agli uomini di dormire con le loro partner. Una consuetudine insomma molto radicata in un Paese, come il nostro, fatto sopratutto di piccole aziende, dove le norme vengono aggirate e la maternità – per il datore di lavoro – non è una libera scelta, ma un ostacolo.

L’aberrante clausola di maternità

Il mondo dello sport poi viaggia su un binario parallelo ancora più obsoleto, dove le donne non hanno la minima tutela. Tutto dipende dal fatto che non sono considerate professioniste, quindi non hanno contratti. «Sono lavoratrici dipendenti nella pratica, perché giocare ad alti livelli impedisce di fare altri lavori. Ma poi sono libere professioniste quanto a tutele, nel senso che non ne hanno». Luisa Rizzitelli è un’ex atleta e presidente dell’Associazione Assist – Donne nello sport che da più di 20 anni si batte perché il lavoro nello sport sia considerato tale a tutti gli effetti, e quindi le donne possano godere delle tutele che spettano a qualsiasi lavoratrice. «Io stessa per 15 anni ho firmato la clausola di maternità e ho visto e vedo tuttora donne che la firmano e a cui viene distrutto li contratto se restano incinte, oppure non vengono pagate per mesi. Le atlete vengono ricattate con scritture private che, al momento della gravidanza, vengono stracciate, salvo poi casi come quello di Lara in cui, se è la donna a rivendicare tutele, allora il contratto viene considerato valido. Un’assurdità possibile solo in Italia, dove si lavora da anni a una legge che cambi la situazione. È stata appena approvata una riforma dello sport ma, seppure con certi aspetti innovativi, lascia che siano ancora le federazioni a decidere il tipo di contratto per i loro atleti».  

La gravidanza non è giusta causa per l’annullamento del contratto

Lo sport insomma sembra un po’ la terra di nessuno, una specie di Far West, dove ogni datore di lavoro applica regole proprie (quelle che gli fanno comodo) e ricatta le donne. Possibile? «Noi atlete abbiamo accettato finora questa condizione come un odioso compromesso che deve sparire» racconta Lara sui social. «Io stessa ho firmato la clausola di gravidanza e poi sono rimasta incinta. Per la società quindi il mio contratto a quel punto era nullo. Ma io ho chiesto solo la restituzione della mensilità non pagata, e ora la società non vuole riconoscerla, quasi come una punizione per il mancato guadagno». È comunque aberrante che una donna debba impegnarsi a non fare figli, e che un datore di lavoro lo metta nero su bianco. «Una scandalo che nel mondo dello sport è normale prassi». L’avvocato giuslavorista Filippo Biolé è responsabile Affari Legali per l’associazione Assist. «La prassi prevede che le atlete in Italia non firmino un vero e proprio contratto ma scritture private, che spesso prevedono clausole come quella sulla gravidanza a cui si appella la società sportiva. È sconvolgente come la società consideri la clausola “normale”: nell’atto di citazione viene messo nero su bianco che una gravidanza è giusta causa dell’annullamento del contratto. E poiché l’atleta ha firmato questa clausola, il suo contratto è da considerarsi nullo. Ma qualsiasi giurista di fronte a una conclusione simile prova il giusto sdegno: un contratto può essere risolto per giusta causa per una grave inadempienza, ma sostenere che la giusta causa sia una gravidanza è aberrante. Questa clausola si deve considerare nulla». 

La clausola dev’essere considerata nulla

Tutta la vicenda è emblematica della discriminazione della condizione femminile nel lavoro sportivo. «L’iniquità è talmente interiorizzata che non solo si ritiene disciplinabile in clausole visibilmente nulle, ma addirittura coercibile in giudizio. Secondo la visione del datore di lavoro sportivo, cioè, il giudice dovrebbe condividere tale iniquità come se fosse cosa ovvia. Queste clausole, invece, non sono ovvie né tantomeno valide e il giudice dovrà sollevare il problema della nullità».

La gravidanza non dev’essere un inadempimento contrattuale

Altro aspetto abnorme di questa vicenda è che la società metta nero su bianco che l’atleta, al momento di firmare, avrebbe taciuto l’intenzione di avere figli puntando a un ingaggio sproporzionato. «Per la società sportiva si tratta di un inadempimento contrattuale perché avrebbe fatto affidamento sull’evidenza che la donna non avrebbe avuto figli. Ma è terribile che un avvocato abbia sposato la tesi dell’atleta diventata surrettiziamente mamma, che poi deve pagare i mancati guadagni alla società e una penale del 10 per cento della sua mensilità. Se anche gli avvocati credono che queste clausole siano valide, abbiamo raggiunto il limite. Ricordiamoci che in qualunque rapporto di lavoro la maternità è tutelata più di ogni altra cosa. Se la donna incinta viene licenziata, la legge presume che sia stata licenziata in quanto mamma, e quindi il licenziamento è nullo. Addirittura il datore di lavoro non può licenziare fino all’anno di età del bambino. E poi sono previste tutte le altre tutele: l’allattamento, la maternità facoltativa, i congedi. Il nostro ordinamento ha infarcito il diritto del lavoro di tutele. Il fatto che le atlete non possano goderne, è perché non sono professioniste».

Non si deve scegliere tra lavoro e figli

La vicenda di Lara Lugli stimola tante riflessioni che toccano tutti noi: il diritto a non scegliere tra lavoro e figli, la doverosa realizzazione nel mondo del lavoro, la necessità di un nuovo welfare che sostenga le donne. E mentre la deputata del PD Laura Boldrini presenterà un’interrogazione («La colpa di Lara è essere rimasta incinta») la ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti si spinge più in là e ipotizza a Radio 24 che il nuovo governo possa trovare le risorse per sostenere i costi di sostituzione maternità delle imprese, oltre a promuovere la decontribuzione per chi assume le donne. Perché se è vero che siamo impantanati in retaggi culturali obsoleti, è anche vero che occorrono strumenti per evitare che tutto il costo della maternità ricada sulle spalle delle aziende. 

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