Migrazione sanitaria, dal Sud per curarsi

L’11 febbraio si ricorda la Giornata mondiale del malato. Ma chi nasce al Sud non ha gli stessi diritti: 750mila italiani ogni anno si spostano alla ricerca di cure migliori. E si sobbarcano le spese per soggiornare in altre città. Ad aiutarli, la rete del volontariato. Ecco alcuni indirizzi

In tempo di migrazioni, ce n’è una che non fa notizia, resta sottotraccia e ci passa accanto senza neanche lambirci. Finché non ci ammaliamo. E allora capiamo che in Italia chi nasce al Nord è avvantaggiato in fatto di cure rispetto a chi nasce al Sud. Perché la distanza fra Catanzaro e Milano si può misurare in chilometri (che sono 1.1599) ma anche in anni di vita in meno (che sono quattro). È la migrazione sanitaria, un fenomeno con numeri spaventosi in Italia, destinati a crescere.

Il giro d’affari della migrazione sanitaria

Si tratta dei viaggi per curarsi, quelli che chiamiamo “viaggi della speranza” e che nel nostro Paese riguardano 750mila persone, accompagnate da 640 mila familiari: un coniuge, un fratello, un amico, un genitore. Sono i dati dell’ultimo rapporto redatto dal Censis (“Migrare per curarsi”, realizzato per conto di CasAmica onlus): circa un milione e mezzo di persone che si spostano per curarsi, alla ricerca di qualità o per motivi logistici, data la complessità geografica del nostro territorio.

Nella metà dei casi, l’accompagnatore torna a casa in giornata o dopo un paio di giorni. Ma nell’altra metà rimane nel luogo di cura per una decina di giorni, secondo i dati, spendendo una volta su tre più di 500 euro per l’alloggio. Un giro d’affari che supera i 4,6 miliardi di euro.

Gli ospedali migliori d’Italia

Più del 30 per cento degli spostamenti avvengono dal Sud verso il Nord: 258mila persone lasciano la Campania (56 mila partenze annue), la Sicilia (43mila), la Calabria e la Puglia (40mila). Ma si emigra anche dalle regioni più piccole verso quelle più grandi del Centronord, alla ricerca dei poli ospedalieri più attrezzati e specializzati. Milano è una delle «capitali» dei viaggi sanitari, insieme a Roma, Genova, Bologna, Firenze. È in queste città che si trovano i dodici ospedali – fra cui Istituto Nazionale dei Tumori, San Raffaele di Milano, Gaslini di Genova, Policlinico Gemelli e Umberto I di Roma, Spedali Riuniti di Siena e Rizzoli di Bologna – che oggi attraggono il 25 per cento dei pazienti italiani in viaggio. Al Sud l’unica struttura ad avere una forte capacità attrattiva è l’ospedale di San Giovanni Rotondo, in Puglia, che con le sue specializzazioni riesce a intercettare pazienti da Molise e Basilicata.

Al Sud si pagano più tasse per curarsi di meno

La migrazione sanitaria pesa anche sulla collettività: le regioni che perdono pazienti si vedono decurtare il budget sanitario dallo Stato, che viene caricato in tasse sui cittadini. La Calabria, ad esempio, deve rinunciare a 265 milioni di euro l’anno, che invece potrebbero essere reinvestiti in strutture e professionalità. La Campania perde 235 milioni, il Piemonte 60. Al contrario, la Lombardia incassa 580 milioni, mentre l’Emilia Romagna 326.

Le spese per il trasferimento

Almeno il 70-75 per cento di chi si sposta per curarsi è affetto da tumore. E per le famiglie colpite, il 40 per cento delle spese annuali sono per vitto e alloggio. «Oltre allo stress emotivo provocato dalla malattia, su queste famiglie pesa anche il costo del trasferimento. A loro, al momento, pensa solo il mondo del non profit, con la rete delle case di accoglienza messa in piedi dalle organizzazioni di volontariato. Ma è una risposta assolutamente inadeguata» dice Stefano Gastaldi, direttore generale di CasAmica onlus, organizzazione di volontariato che dal 1986 accoglie i malati costretti a spostarsi in altre città. «Poco più del 10% viene accolto in queste strutture, che offrono costi molto calmierati (10-15 euro) vicino al luogo di cura. Il 15% è ospitato da amici o parenti.  Gli altri si rivolgono a strutture alberghiere o residenziali».

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Manca un coordinamento tra ospedali e Terzo settore

Negli ultimi decenni la rete del volontariato ha sanato le falle lasciate dallo Stato. «Del fenomeno potrebbero occuparsi le grosse strutture sanitarie che attirano pazienti, fornendo loro stesse le case alloggio e affidandone la gestione a volontari» continua Gastaldi. «In realtà, i pazienti e le loro famiglie faticano a trovare le informazioni. Al massimo, qualche indirizzo di bed and breakfast. Servirebbe un coordinamento fra ospedali ed enti del Terzo settore, con il sostegno delle istituzioni. Un dialogo oggi frammentato, legato a singole e isolate esperienze».

La rete italiana dell’accoglienza

Una di queste è rappresentata da Casamica onlus. Oggi conta quattro case a Milano, dove passano 4mila persone all’anno, una casa a Lecco e una a Roma.

Dall’esperienza di questa struttura, è nata una rete preziosa. «Nel 2013 abbiamo unito le forze con Avo, Lilt, Prometeo, Associazione Marta Nurizzo e dato vita al progetto A casa lontani da casa che mette in rete oltre 80 case d’accoglienza lombarde» conclude Gastaldi. «Sul sito, i malati trovano un primo orientamento fra ospedali e indirizzi utili per la trasferta: mille i posti letto, sparsi nelle province di Milano, Pavia, Bergamo, Brescia, Lecco e Varese. Tutti a brevissima distanza dagli ospedali».

Sempre a Milano è partito un innovativo progetto di sharing economy promosso da Comune, Casa di accoglienza per donne maltrattate e Airbnb. Grazie a questa collaborazione i familiari delle persone malate possono essere ospitati da cittadini milanesi a prezzi agevolati. La logistica e i servizi di accoglienza sono gestiti dalla cooperativa sociale Sei petal.

In altre città del centro e nord Italia sono poi presenti le case-alloggio dell’associazione Cilla che conta 200 volontari e 24 strutture capaci di accogliere ogni anno circa 8.500 persone. Anche Ail, Associazione italiana contro le leucemie, offre un’importante rete di case-accoglienza: qui il malato, soprattutto nella fase post-trapianto, può soggiornare gratuitamente. Le Case Ail sono presenti in 36 città.

A Firenze la Fondazione Ospedale Pediatrico Meyer ha attivato la rete Accoglienza Famiglie a cui aderiscono numerose associazioni ed enti non profit.  A Pisa, invece, i piccoli pazienti e le loro famiglie possono contare sulla Casa “Isola dei girasoli” per bambini affetti da patologie oncoematologiche, nata grazie all’impegno dell’Associazione Genitori per la cura e l’assistenza ai Bambini Affetti da Leucemia o Tumore.

Per rintracciare le case di accoglienza nelle varie regioni è attivo dal 2011 il portale Accoglienzaospedali.org, promosso da un gruppo di associazioni e dal Centro servizi volontariato delle Marche. Il sito offre un utile database, suddiviso per provincie, in cui sono raccolte 110 strutture a disposizione dei malati e delle loro famiglie. 

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