Antonella Lattanzi
Quel figlio che non arriva. La ricerca del «momento giusto» per fare sesso. La vergogna di non riuscire a essere madre. Il senso di colpa «perché te lo sei meritato». Nel nuovo romanzo la scrittrice Antonella Lattanzi racconta senza filtri il suo doloroso percorso di procreazione assistita. Una storia privata che diventa storia di tutti

CI SONO COSE che si tengono al segreto del proprio cuore. Sono, spesso, quelle più dolorose. Le abbiamo vissute tutte – chi più, chi meno – ma in molte abbiamo preferito lasciarle andare nel passato, cercando di rimuoverle. Antonella Lattanzi – barese classe 1979, autrice di Una storia nera (Mondadori), che presto diventerà un film, e Questo giorno che incombe (HarperCollins), insignito del premio Scerbanenco – invece vi ha infilato la penna, parlandone senza filtri in Cose che non si raccontano (Einaudi), in cui rivela del suo desiderio di avere un bambino, delle difficoltà incontrate con la fecondazione assistita e del doloroso epilogo.

Nel romanzo Cose che non si raccontano (Einaudi) Antonella Lattanzi mette a nudo il suo doloroso percorso di donna che non riesce a diventare madre.

Fecondazione assistita: di solito si tace

«Ho deciso di scrivere questo romanzo perché queste sono cose che, di solito, si tacciono» esordisce. «Sono cose che non si riescono nemmeno a nominare: l’aborto, la fecondazione assistita, il dolore, la ricerca e la paura della maternità, la battaglia interiore tra essere una persona ambiziosa ed essere una madre. Ci hanno assicurato che la nostra generazione non sarebbe stata più costretta a scegliere tra lavoro e maternità, ma non è così. Viviamo ancora travolte da questo conflitto. Fare un figlio troppo presto. Aspettare troppo. Chi ti aiuta? Nessuno. Rimaniamo sole coi nostri dubbi, col nostro dolore. Ho deciso di scrivere questo romanzo perché finalmente cominciamo davvero a parlare di questi argomenti e non ci sentiamo più così. L’ho scritto anche per far sentire meno abbandonata chi avverte la vergogna di non volere un figlio, di volerlo e non riuscirci, di averlo perso e non trovare le parole per parlarne, per chi si sente in colpa e pensa di essere un mostro. L’ho scritto per chi si sente egoista e pensa che in qualche modo si è meritata un dolore troppo grande». Il riferimento è alle due interruzioni di gravidanza praticate da giovanissima, che tornano come senso di colpa nel libro, e alla paura che quel desiderio di lieto fine («Voglio tanto un figlio, ma ne ho terrore») trovi consistenza.

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Il senso di colpa

Si affonda, pagina dopo pagina, nell’incubo che affligge molte donne che lavorano – perderò tutto quello per cui ho lottato negli anni? Come farò a conciliare tutte le cose che voglio fare con quelle necessarie al bambino? Cambierò diventando una madre? – e nell’orrore del pensiero magico secondo cui immaginare una cosa vuol dire farla accadere, nella vergogna di svelarsi nel proprio passato certe che questo possa compromettere il futuro: «Anche se credi con tutte le tue forze al diritto all’aborto, se hai rifiutato un bambino, se hai compiuto un’interruzione di gravidanza volontaria, se non hai voluto un figlio per un periodo della tua vita e poi invece lo vuoi tantissimo e non riesci ad averlo, si insinua in te un senso di colpa atavico: quel bambino non arriva perché in qualche modo te lo sei meritato. Sei stata punita» continua l’autrice. Proprio come accade nelle pagine del libro, in cui Antonella racconta la sua storia: «Ho fatto sesso quando mi andava convinta che così si fanno i figli  – perché gli altri così li fanno – e non ci sono riuscita. Quando poi ho cominciato a calcolare i giorni fertili, ad andare dal ginecologo ogni mese per controllare l’ovulazione – e il sesso diventa odioso, una medicina amara da prendere almeno una volta ogni due giorni per almeno una settimana – e non sono riuscita lo stesso. Quando io e Andrea abbiamo fatto tutte le analisi del mondo, e non c’era niente che non andasse, e quindi niente che si potesse aggiustare. Infertilità sine causa. Quando sono passata attraverso il percorso della procreazione assistita, e un dio ha voluto che il giorno del mio primo monitoraggio dovesse coincidere con l’inizio di marzo 2020, la prima settimana di lockdown».

Fecondazione assistita: un salto nel buio

Così la scelta della Procreazione assistita diventa un salto nel buio. «Per me è stata uno strazio» riflette Antonella Lattanzi. «Potrei definirla una tortura dal punto di vista sia fisico sia psicologico. Devi fare tante analisi, tanti monitoraggi, la tua vita viene scandita dal “momento giusto”. Io ho vissuto tre anni non potendo minimamente gestire la mia quotidianità, ma dovendo completamente essere preda di visite e medicine. Il carico psicologico è fortissimo, e si abbatte anche sulla coppia. La maternità viene alterata. Si dice che fare i figli sia una cosa naturale, ma andrebbe raccontato che non si è un’eccezione se si è obbligati a intraprendere questo percorso complesso, accidentato e costoso che è la Pma».

Spesso, poi, gli esiti non sono quelli sognati o prospettati. Come accade a lei. Dopo svariati tentativi, Antonella decide di impiantare due blastocisti. Finalmente l’operazione va a buon fine. Apparentemente. Le beta hCG salgono in modo esponenziale. Una prima ecografia rivela la presenza di un sacco vitellino. Ma dentro ci sono due embrioni. Anzi, tre. Si tratta di un caso rarissimo di gravidanza monocoriale triamniotica: una blastocisti si è triplicata, e il lieto evento si trasforma in tragedia. La scoperta è disarmante. Portare avanti la gravidanza in quel modo è troppo rischioso. Bisogna praticare una “riduzione”. E gli esiti di quella riduzione, effettuata a 12 settimane, sono nefasti. Ma non quanto quello che accadrà dopo il raschiamento.

La violenza ostetrica

«Volevo parlare anche della violenza ostetrica. Non è possibile che le donne che decidono di avere un interruzione di gravidanza o subiscono un aborto si trovino in spazi dove sono circondate da donne che stanno partorendo. Non è possibile che in ospedale ti chiamino papà e mamma, quando tu un figlio non ce l’hai più. Sarebbe utile che un’esperienza tanto mostruosa venisse curata da un punto di vista psicologico» aggiunge. «Durante questo percorso mi sono resa conto quanto sia poco diffusa la scelta di congelare gli ovuli, al contrario di quanto accade all’estero». Eppure questo aiuterebbe a sentire meno impegnativo l’orologio biologico, che diventa assordante nelle pagine del libro.

«Scrivendo, ho fatto un atto di fede nei confronti del gesto letterario. Qui c’è il passaggio da una storia privata a una storia di tutti. Penso che le parole, quando trovi quelle giuste, anche quelle più crude, violente, autoaccusatorie o tristi, siano le uniche in grado di restituire la complessità dei sentimenti umani. Cominciare a pronunciarle con il loro nome è il primo passo». Un primo passo che accompagna chi legge ad avvicinarsi con più delicatezza alle proprie fragilità, ai propri desideri e alle proprie colpe, presunte o reali. «Dopo quello che mi è successo, mi è capitato di leggere libri su altri tipi di dolori – la morte, la dipendenza, la malattia – e ci ho ritrovato me stessa. È stata una scoperta incredibile. E allora ho pensato che questo romanzo potesse essere non solo per chi è donna, non solo per chi ha provato un dolore come il mio, ma per tutti quelli che provano un dolore incommensurabile. Paradossalmente, l’ho scritto sperando di dare un po’ di pace, un po’ di luce a chi leggeva».

Cos’è la procreazione medicalmente assistita

La scelta di 65.000 coppie, la procreazione medicalmente assistita, è un processo medico che, in situazioni di infertilità di coppia, punta a incrementare le possibilità di concepimento.

Le tecniche sono utilizzate con un processo di gradualità a cominciare da quelle meno invasive, come l’inseminazione intrauterina, che consiste nell’iniettare il liquido seminale, trattato in laboratorio, direttamente nell’utero della paziente al fine di agevolare l’incontro tra spermatozoo e ovocita. Nelle tecniche di fecondazione in vitro, più complesse e invasive, la fecondazione avviene invece in laboratorio. La Fivet – suggerita in caso di ostruzione delle tube di Falloppio, endometriosi, disturbi dell’ovulazione, lieve deficit della conta spermatica – comporta la stimolazione ovarica e il prelievo di ovociti maturi, collocati poi su una piastra di coltura insieme agli spermatozoi: una volta avvenuta la fecondazione in modo naturale, l’embrione viene lasciato sviluppare in laboratorio dai 3 ai 5 giorni e poi inserito nell’utero. Altre tecniche sono la ICSI, in cui un singolo spermatozoo è iniettato nell’ovulo in provetta, o la IMSI, che prevede la selezione degli spermatozoi.

Secondo l’Oms, circa il 15% delle coppie in Italia presentano problemi di infertilità (definizione che indica l’assenza di concepimento dopo 12-24 mesi di rapporti mirati non protetti). In Italia – stando agli ultimi dati dell’Istituto Superiore di Sanità – esistono 328 centri specializzati, che nel 2020 hanno seguito 65.705 coppie. I cicli di trattamento registrati sono stati 80.099, le gravidanze ottenute 15.582 che hanno portato a 10.603 parti documentati e 11.305 bambini nati, il 2,7% del totale dei nati in Italia nel 2020.

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