Fase 2, c’è chi soffre della “sindrome della capanna”

Fino al 4 maggio si contavano giorni e ore che ci separavano dalla fine del lockdown e delle restrizioni in casa. Ora, invece, si iniziano a contare i casi di persone che hanno “paura” o semplicemente non voglia di uscire. Si tratta della «sindrome della capanna» o «del prigioniero», a cui in Spagna il Collegio ufficiale degli psicologi di Madrid ha dedicato particolare attenzione. Anche in Italia dopo settimane in tuta e pantofole, o semplicemente confinati in ambienti ristretti senza vedere nessuno se non i propri familiari stretti, l’idea di tornare all’esterno può spaventare e mettere ansia: «Il nostro cervello è predisposto ad adattarsi alla realtà che ci circonda, trasformandola in breve in una nuova abitudine. Sono sufficienti anche due settimane. Per qualcuno, però, questo processo di cambiamento è più difficile da mettere in atto, quindi può capitare di passare dalla frustrazione dell’isolamento allo stress di dover tornare alla normalità. A soffrire maggiormente sono i soggetti meno flessibili, costretti a rimettersi in discussione» spiega Alessandro Calderoni, psicologo, psicoterapeuta, tra i fondatori del Pronto Soccorso psicologico di Milano, che in queste settimane ha operato online.

Cos’è la “sindrome della capanna”

«L’adattamento è una delle nostre strategie evolutive più solide e sane, ma è inevitabile che richieda qualche tempo e un po’ di flessibilità. Ci sono soggetti che hanno sofferto il confinamento al chiuso e adesso vivono la fase 2 come una liberazione. Altri, invece, che hanno un temperamento meno esplorativo, hanno potuto vivere per due mesi in una modalità a loro più congeniale, trovando il conforto del nido. Per loro l’idea del ritorno alla condizione precedente potrebbe tradursi nella «sindrome della capanna» perché significa sentirsi costretti a lasciare un luogo nel quale si sentono protetti, sicuri, per dover tornare a esplorare di nuovo l’ignoto» dice l’esperto.

Quanto tempo serve per tornare alla normalità

«In genere si tratta di riadattarsi, ma nel caso specifico della fine del lockdown, il passaggio potrebbe essere meno traumatico. Oltre a poter far leva sulla predisposizione genetica dell’uomo all’adattamento, possiamo contare su due fattori: la gradualità, perché le aperture sono progressive, e il fatto di conoscere già ciò che ci aspetta per averlo vissuto prima del lockdown» spiega Calderoni. Ma quanto tempo serve per tornare alla normalità? «La maggior parte delle persone si abitua in pochi giorni, un paio di settimane in media. Basti pensare a cosa succedere quando si va in vacanza e all’inizio si pensa di non riuscire a staccare dal lavoro, salvo poi abituarsi al relax in brevissimo tempo. Oppure a quando si torna e bisogna riprendere i ritmi quotidiani. Si può arrivare, però, anche a 12 mesi nei casi di cambiamenti più consistenti o di persone particolarmente resistenti alle novità» dice l’esperto.

I soggetti più a rischio

«A contare è anche il fattore anagrafico: gli anziani faticano di più a cambiare abitudini o stile di vita» spiega lo psicologo e psicoterapeuta. Ci sono differenze tra uomini e donne? «Non ci sono studi a riguardo, mentre è indubbio che a soffrire maggiormente sono coloro che hanno delle fragilità, chi è ansioso o vive situazioni di depressione» dice Calderoni, che aggiunge: «In generale, la vera differenza la fa la capacità di accogliere o meno le novità. Chi ha un cervello più esplorativo è più facilitato ad accogliere i cambiamenti rispetto a chi ha un atteggiamento più difensivo».  

Come si risolve: l’allenamento quotidiano alle novità

«Al cambiamento e alle novità ci si può allenare, anche quotidianamente e senza che a costringerci a farlo sia un’emergenza o la fine della crisi sanitaria. Sono sufficienti pochi minuti al giorno, partendo proprio dal cambio della routine quotidiana. Ad esempio, cambiando il posto in cui ci si siede abitualmente a tavola, scegliendo una marca di dentifricio differente, o esplorando un percorso differente per recarsi al lavoro o a fare la spesa» spiega Calderoni. «Possiamo abituare il nostro cervello alle novità anche solo scegliendo un film senza averne prima letto la trama, ma semplicemente lasciandoci incuriosire dal titolo, quindi rinunciando al desiderio di fare una scelta controllata e sicura. Il segreto è spostarsi da un atteggiamento di allarme a uno di esplorazione, facendo seguire al cervello una sorta di training, come fossimo in palestra» aggiunge lo psicoterapeuta.

I precedenti

L’emergenza sanitaria mondiale, causata dal coronavirus, ha costretto milioni di persone a stare in casa per periodi anche molto lunghi, creando anche l’abitudine all’isolamento sociale. Ma non si tratta dell’unico caso. Ci sono stati precedenti, ad esempio, anche negli Usa, dove in alcuni stati nei quali gli inverni sono particolarmente rigidi o innevati, la popolazione è obbligata a rimanere in casa per buona parte dell’inverno e, salvo le strette necessità, torna a uscire solo con l’arrivo della primavera.

Lo stesso senso di straniamento nel tornare ad avere contatti più stretti con gli altri si prova dopo lunghe malattie o periodi di ospedalizzazione prolungata. In questo caso, uno dei timori più diffusi è di non trovare più i propri punti di riferimento o gli ambienti ai quali si era abituati, proprio come nel caso della fine del lockdown e del ritorno in ufficio, magari dopo mesi di smartworking, tra cucina e salotto di casa propria.

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