Milano 26 aprile 2021
Ristoranti aperti a pranzo e a cena, ma solo per il servizio all’aperto. Spostamenti liberi tra Regioni gialle, con certificazione tra le altre. Coprifuoco confermato alle 22. Sono alcune misure dell’ultimo decreto del governo in vigore da questa settimana.

Quando la zona rossa è uno stato d’animo

Davanti alla prospettiva della pur cauta riapertura che si annuncia in tutto il Paese, esistono due tipi di persona: quelli che non vedono l’ora di tornare a fare qualunque cosa e quelli come me. Il primo tipo di persona ha interpretato diligentemente tutte le sfumature cromatiche che sono state imposte per decreto governativo, ma non ne ha fatta propria nemmeno una. Ha patito il lockdown come una riduzione necessaria della propria libertà, ma senza mai smettere di sperare che finisse.

Davanti all’ipotesi del “liberi tutti” questa persona reagisce con eruzioni gioiose di progetti ed entusiasmo. Non ha visto gli amici e ora li vuole vedere, non ha mangiato nei suoi ristoranti preferiti e adesso ci vuole riandare, non ha viaggiato e non vede l’ora di farlo di nuovo. In generale ha una voglia pazza di tornare a una pratica di normalità pre-Covid, come se tutto fosse stato un incidente di percorso da cui si può uscire di certo provati, ma non così cambiati da non volere più le stesse cose di prima. 

Provo invidia, lo ammetto, perché io invece appartengo alla molto meno nutrita tribù umana che ha assunto la zona rossa come rifugio e prova una vera angoscia all’idea di doverla abbandonare. Per quelli come me, il distanziamento sociale si è rivelato un’occasione preziosa di selezione relazionale e la prospettiva di tornare a vedere semplici conoscenti solo perché ora di nuovo lo si può fare sembra un inaccettabile spreco di vita. Una domanda crudele è lì e non intende andarsene, pronta a rovinare anche rapporti insospettabili: «Se non ho sentito il bisogno di frequentarti per mesi, perché mai dovrei farlo ora?».

Per le persone per le quali la zona rossa è diventata uno stato d’animo anche pensare di dismettere la distanza interpersonale nella fila alle Poste o al mercato appare adesso insopportabile, così come l’ipotesi di veder sparire le rassicuranti mascherine e ricomparire le assai più esigenti facce. È stato bellissimo non ammalarsi nemmeno di un raffreddore per due inverni consecutivi, e se prima eravamo convinti di avere una salute precaria, ora abbiamo il concreto sospetto che fossero gli altri a starci troppo vicini. 

Le persone come me in lockdown non hanno mai assaltato il banco del supermercato col lievito per fare la pizza in casa, anzi sono dimagrite in misura direttamente proporzionale alla frequenza con cui prima cenavano e bevevano fuori. La mia socialità pesava 8 chili, una zavorra anche simbolica che non ho fretta di riprendermi, così come non mi attrae trascorrere ancora decine di ore in viaggio per andare a fare assembramenti che – l’abbiamo capito tutti – potevano essere risolti anche online.

Vengano dunque le riaperture e torni l’invocata normalità, se tanto normale era davvero la vita di prima, ma dalla mia piccola tribù di cagionevoli e introversi sale dal cuore una preghiera: o voi, fortunate persone piene di voglia di ricominciare, siate pazienti con noi fragili persone rosse. Per voi il problema era il virus, per noi eravate voi.

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