Tumori, a cosa servono i test genetici

L’ultimo caso in ordine di tempo è quello di Mary Falconieri, la ex concorrente del Grande Fratello, che a soli 25 anni ha deciso di sottoporsi a una doppia mastectomia, facendosi asportare entrambi i seni, per prevenire il rischio di tumore che ha già colpito la madre, la zia e la cugina della giovane. La scelta della Falconieri è stata al centro di un vivace dibattito sulla pagina Facebook di Donna Moderna, dove in centinaia vi siete interrogate sull’opportunità o la possibilità di seguire una scelta come quella della ex Miss Cinema Puglia.

Ma quando è utile o occorre sottoporsi ai test genetici? Di cosa si tratta? Possono essere fatti solo dalle donne o sono utili anche per gli uomini? Abbiamo girato molte vostre domande al dottor Marco Pierotti, ex Direttore Scientifico all’Istituto Nazionale Tumori di Milano, ora a Cogentech, un consorzio che si occupa proprio di test genetici per tumori ereditari, all’interno del Campus IFOM-IEO, il centro di ricerca biomedica dell’Istituto FIRC di Oncologia Molecolare. Qui si studiano proprio i meccanismi molecolari che sono alla base della formazione e dello sviluppo dei tumori.

Cosa sono i test genetici di prevenzione al tumore?

Si tratta di esami accuratissimi in grado di individuare particolari mutazioni del DNA, associate ad un maggiore rischio di tumore al seno o alle ovaie. Prima di effettuarli, però, occorre seguire un percorso ben definito, perché solo il 5-10% dei tumori in questione è di tipo ereditario. «Va subito chiarito che il test non viene eseguito su pazienti sani, ma in donne che hanno già il tumore all’ovaio o alla mammella» spiega a Donna Moderna  «Occorre rivolgersi a un medico specialista: se la donna in questione rientra in una certa tipologia di rischio, si procede con il test. La Società italiana di genetica umana, che a sua volta ha recepito alcune indicazioni americane, individua l’opportunità di sottoporre a questi esami genetici solo chi ha in famiglia situazioni particolari di casi multipli (di solito in età relativamente giovane) almeno di cancro all’ovaio, da ciascuno (o uno solo) dei due rami, dunque o da parte materna o da parte paterna». 

Chi deve o può sottoporsi ai test?

Sono molte le donne ammalate di tumore o che sono guarite dopo molte sofferenze, che anche sulla pagina Facebook di Donna Moderna hanno scritto: «Se avessi potuto prevenire, non avrei esitato a sottopormi al test». Ma è possibile eseguire il test autonomamente o è il medico a prescriverlo? «Se fosse possibile fare un’equazione, per cui sottoponendosi al test si potesse avere la sicurezza di non ammalarsi o guarire, saremmo tutti più contenti. In realtà occorre ricordare il 90-95% delle alterazioni dei geni avviene durante la vita adulta delle cellule, dunque la maggior parte delle trasformazioni non è ereditabile né trasmissibile».

Il test, poi, non viene eseguito su persone sane. «Si sottopone a donne che hanno già un tumore: questo perché occorre andare a cercare il tipo esatto di mutazione responsabile della malattia. Solo una volta conosciuta una eventuale anomalia, si inizia un percorso di “consulenza genetica” (geneticscounseling), con colloqui approfonditi con medici oncologi e genetisti, per decidere la terapia da seguire e, su consenso della paziente, se sottoporre a test anche i familiari potenzialmente a rischio, come ad esempio una figlia» spiega Pierotti.

Mary Falconieri ha raccontato di avere la madre in cura per un tumore da 10 anni, così come la zia e la cugina, che si è ammalata a soli 31 anni. I casi di Vip, però, a volte possono avere un effetto allarmistico: «All’epoca di Angelina Jolie – ricorda Pierotti – i centralini dell’Istituto dei Tumori furono presi d’assalto da donne che chiedevano di poter effettuare i test, in via preventiva, ma oltre il 99% delle richieste risultò improprio: insomma non c’era ragione per fare questo tipo di accertamento».

Come funzionano i test genetici?

“Viene effettuato un semplice prelievo del sangue, andando ad analizzare i globuli bianchi: si estrae il DNA, si procede con il cosiddetto next generation sequencing, (Ngs), ovvero una tecnica per leggere la sequenza del DNA, andando a scoprire l’eventuale presenza di geni responsabili dell’aumentato rischio di tumore: si tratta dei geni BRCA1 e BRCA2” spiega il Dottor Marco Pierotti.

Dal 1995, ovvero pochi dopo la scoperta del secondo gene grazie all’AIRC, sono stati avviati diversi studi, analizzando quasi 1.400 famiglie italiane, pari a circa il 40% dei nuclei che hanno presentato un problema di tumore al seno di natura ereditaria-familiare. «Le ricerche indicano che, anche in famiglie con pazienti con una mutazione in uno dei due geni a rischio, la metà delle donne risulta esclusa dal rischio stesso, dopo aver effettuato l’esame» aggiunge l’esperto.

Cosa succede se i test sono positivi?

“Come detto si avvia un percorso informativo del paziente, in modo che questo possa optare per la strada che ritiene migliore, perché non è mai il medico che decide in autonomia. Può, eventualmente, consigliare in base a soglie di rischio, ma la scelta ultima spetta all’individuo. I numeri ci dicono che il 62% delle donne che aveva già avuto un problema di tumore opta per l’intervento chirurgico, dunque la mastectomia, mentre nei soggetti sani ma con un elevato rischio di ereditarietà, come nel caso di Angelina Jolie, la percentuale crolla al 30%».

Se si accerta la presenza di un fattore di rischio, le possibilità sono dunque due: la prima è quella di uno screening ravvicinato, che può essere rappresentato da una risonanza magnetica nucleare: “Si tratta di un esame accurato, indicato soprattutto nei soggetti più giovani, per i quali, dai dati ottenuti in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, si è visto che l’ecografia e la mammografia da sole possono non essere sufficienti” dice Pierotti. “Se, invece, il soggetto presenta un rischio davvero molto elevato, si può proporre un intervento chirurgico come la mastectomia. Purtroppo non possiamo indicare una soglia numerica esatta, che va valutata sui singoli soggetti. Si può però dire che in presenza del 70% di rischio può essere il medico stesso a caldeggiare una soluzione chirurgica”.

Esiste anche una terza strada, con il ricorso a un farmaco specifico?

«Al momento si ripone grande fiducia sulla chemioprevenzione (che non è la chemioterapia, NdR), ovvero una pillola da assumere per tutta la vita»” spiega il Dottor Pierotti. «Nello specifico si sta sperimentando un noto farmaco antidiabetico su un totale di 4000 donne sane e il suo effetto preventivo sui tumori al seno sarà valutato dopo 5 anni. Per quanto riguarda nuove terapie di questi tumori, si sta sperimentando un farmaco piuttosto efficiente, da applicare a tumori all’ovaio anche in soggetti che non hanno ereditarietà, ma presentano una specifica mutazione genetica. Questi soggetti diventano eleggibili per il trattamento con Olaparib, che contiene l’inibitore di un enzima, usato per alcuni tumori e in grado di riparare alcuni filamenti di DNA una volta che il test genetico ha rivelato, anche per questi tumori non ereditari, alterazioni simili a quelle dei geni BRCA1e 2″.

I test genetici possono essere fatti anche dagli uomini?

«Il test non riguarda solo le donne, perché il patrimonio genetico di ciascun soggetto è ereditato dallo spermatozoo maschile e dall’ovocita femminile, che creano il make up genetico dell’individuo» spiega Pierotti, che aggiunge: «I maschi, in particolare, possono essere semplici ‘portatori’ del gene mutato, a loro volta ereditato da un genitore e dunque possono trasmetterlo alle figlie. Nei soggetti con mutazione genetica, però, si è visto che esiste anche un maggior rischio di sviluppare un tumore alla prostata. Esiste comunque anche la possibilità di mutazioni ex novo, ovvero che avvengono durante la formazione della cellula germinale, senza che ci sia ereditarietà”.

Il test genetico è gratuito?

«Questo è uno degli aspetti più controversi della questione, non a caso il 16 settembre c’è stata un’audizione in Senato dell’Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (ONDA), che ha presentato un rapporto sulla disomogeneità dei trattamenti in Italia: alcune regioni, come l’Emilia Romagna, prevedono l’esenzione del ticket per follow up di esami in casi di positività, in altre i test sono gratuiti, in altre ancora mancano strutture adeguate per eseguirli».

È vero che ci sono popolazioni o zone in cui la probabilità di mutazioni genetiche è maggiore?

«Più che aumento di probabilità di mutazioni, direi di concentrazione di particolari mutazioni. In Italia, la zona della bergamasca è un esempio, dovuto al fatto che storicamente vi è sempre stata una maggiore consanguineità. Un caso analogo è quello delle donne israelitiche» spiega l’esperto. Non a caso qualche tempo fa il New York Times pubblicò in prima pagina una foto shock, che mostrava il seno di una donna ebrea, identificabile da una stella di David tatuata, riaprendo il dibattito sulla diffusione maggiore di patrimoni genetici mutati proprio in un ceppo etnico ebraico. Si tratta, in particolare, delle donne Ashkenazi, originarie dell’Europa centrale. La consanguineità all’interno di questo ceppo ha favorito una particolare mutazione.

Un caso analogo è proprio quello della mutazione, scoperta negli ultimi anni nelle valli bergamasche, che dagli studi condotti risale a 3.000 anni fa ed è legata al 5-10% dei tumori contratti dalle popolazioni di quella zona».

Quanto incide lo stile di vita nei tumori di origine ereditaria?

«Lo stile di vita rappresenta sempre un fattore importantissimo nell’insorgenza di molte patologie. Anche nel caso di tumori di origine ereditaria, col passare degli anni si è visto come alimentazione e vita attiva possono contribuire enormemente allo sviluppo o meno di patologie, anche in soggetti con mutazione genetiche, magari evitando anche il ricorso a interventi invasivi come la mastectomia. Se fino a qualche anno fa, infatti, si pensava che le portatrici di geni mutati avessero il 100% di probabilità di insorgenza di tumore al seno, questo dato è man mano sceso al 90%, poi all’87% e oggi al 60%. Gli studi si stanno però focalizzando anche su quel 40% di individui che non contraggono il tumore, anche in ragione dei costi molto elevati di alcuni tipi di diagnosi e di terapie, che potrebbero essere ridotti con un cambio negli stili di vita» conclude Pierotti.

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