Dislessia nel bambino

Una volta erano i classici bambini bollati (e puniti) come “pigri”, “svogliati”, “indolenti”. Oggi sappiamo che, in realtà, hanno un problema che non ha a che fare con il carattere: sono dislessici. Cioè intelligenti, curiosi, dotati di una vivacissima memoria. Ma con forti difficoltà nella lettura.

Secondo i dati del Ministero dell’istruzione, a tutt’oggi sono stati accertati 90.000 casi. Vuol dire che di dislessia soffre l’1,1% degli alunni dai 6 ai 18 anni. Ma c’è chi parla di numeri in difetto: il problema riguarderebbe dal 3 al 5% dei bambini. Semplicemente, molti non sono stati ancora diagnosticati. E qui genitori, insegnanti e psicologi si dividono: chi lamenta un eccesso di certificazione, chi, al contrario, chiede più attenzione.

Ma quali sono le conseguenze di questo disturbo? E quali ricadute psicologiche può avere in famiglia? Ne parliamo con Giacomo Stella, ordinario di psicologia clinica all’Università di Modena e Reggio Emilia e direttore della Rete italiana dislessia (sosdislessia.it) subito dopo il convegno nazionale che si è tenuto a Pisa.

Dislessia: come affrontarla con serenità

È tutta colpa di un gene. Ma non c’è nulla di cui vergognarsi. Chi ha questo problema è curioso e intelligente. E ha unicamente bisogno di una famiglia che lo capisca

«Nostro figlio è molto seguito, fin dalla prima elementare». Se, a prima vista, questa ci sembra un’affermazione positiva, la manifestazione di una presenza attenta e partecipe dei genitori, in realtà nasconde una triste conseguenza: un bambino dislessico o, comunque, affetto da DSA (disturbi dell’apprendimento) non può imparare in autonomia.

PERCHÉ STUDIARE DA SOLI È IMPORTANTE

«Non ci si pensa mai ma mancanza di autonomia, oltre ad essere causa di disistima, spesso compromette anche il successo formativo, quindi rappresenta uno dei maggiori problemi da affrontare» commenta il professore Stella, direttore scientifico di Sos Dislessia. «Rendere autonomo un bambino e un ragazzo con dislessia oggi, non vuol dire solo velocizzare i suoi tempi di lettura e correggerne gli errori attraverso diversi tipi di trattamento, ma garantirgli la possibilità di informarsi, conoscere, comunicare nella totale indipendenza e libertà».

DISLESSICI (E) FAMOSI Qualcuno pensa che dislessia sia uguale a stupidità? Niente di più falso, Ba

DISLESSICI (E) FAMOSI

Qualcuno pensa che dislessia sia uguale a stupidità? Niente di più falso, Basta pensare che ne soffrivano Einstein, Kennedy e Steve Jobs. E che, tra i vip di oggi, hanno rivelato di essere dislessici il cantante e musicista Mika, nella foto, la rapper e conduttrice La Pina e il velista Giovanni Soldini

Cause e conseguenze della dislessia nel bambino

Quali sono le cause della dislessia? «Una ricerca dell’Università San Raffaele di Milano ha recentemente confermato che dislessici si nasce: alla base c’è un’alterazione del cromosoma 15» spiega Giacomo Stella. «È questo a creare un disturbo del neurosviluppo che interferisce con la capacità di leggere. Un problema circoscritto, ma con conseguenze importanti: la lettura è una competenza indispensabile all’adattamento sociale».

La dislessia, insomma, non è un deficit di intelligenza (anzi) o un problema che riguarda la vista o l’udito. Né è vero che un bambino dislessico non “possa” leggere: lo fa ma gli costa uno sforzo enorme. E, nonostante impieghi tutte le sue energie, i risultati sono sempre molto al di sotto del livello che ci si aspetterebbe in base all’età: magari va benino ma è lentissimo, oppure procede spedito ma fa un sacco di errori (come saltare le parole, invertirle, sostituirne delle parti e così via).

Il risultato? Per lui capire il contenuto di un testo è più difficile. In classe, rischia di sentirsi isolato e preso in giro. E si chiude in se stesso. Ecco perché, a volte, il primo allarme è di tipo psicologico: il bambino è teso e a disagio. E inventa scuse per non andare a scuola.

Dislessia: i primi segnali fin dall’asilo

Qualche volta il sospetto nasce presto, fin dalla materna. «Magari perché il piccolo fa fatica a ripetere rime e filastrocche» spiega Giacomo Stella. «Ma, per una vera diagnosi, bisogna aspettare che frequenti la seconda elementare, quando bisogna saper leggere. È solo allora che l’insegnante può accorgersi di chi non riesce a decifrare lettere e parole».

A questo si aggiunge un altro ostacolo: la distrazione. Un dislessico fa molta fatica a rimanere concentrato perché seguire la lezione alla lavagna o scrivere gli costa un grande sforzo. A quel punto, cominciano i problemi: qualche nota, i genitori chiamati a scuola. È una fase delicata, a volte tra famiglia e insegnanti si crea il muro contro muro, ma è anche l’unica occasione per iniziare a considerare l’eventualità che il bambino sia dislessico. Altre volte accade l’opposto: mamma e papà si rendono conto che c’è un problema, sottopongono il piccolo a un test per i Dsa (disturbi specifici dell’apprendimento) ma, a scuola, non trovano l’appoggio di insegnanti preparati a gestire un alunno con questo problema.

In entrambi i casi serve uno sforzo di collaborazione da parte di tutti. Ma bisogna anche tenere a bada l’inevitabile ansia: con la dislessia si può convivere, studiare, lavorare, viaggiare. In una parola: avere una vita normalissima.

Le cose da non fare con un bambino dislessico

«In famiglia i comportamenti sbagliati sono due: prendersela con gli insegnanti e negare il problema. Oppure accettarlo ma viverlo con vergogna, come se fosse una colpa» continua l’esperto. «Nel primo caso si garantisce al bambino una carriera scolastica disastrosa, e molte sofferenze: lui farà sempre più fatica e, oltre a collezionare brutti voti, arriverà a odiare gli insegnanti e i compagni, si sentirà diverso, isolato, solo». Nel secondo, invece, avrà pesanti ricadute sulla sua autostima: è difficile credere in se stessi se, per primi, mamma e papà pensano di avere un figlio “sfortunato”.

«All’inizio un po’ di ansia è normale, ma ai genitori consiglio di non avere paura e chiedere subito aiuto agli specialisti: oggi abbiamo tutti gli strumenti per mettere i dislessici nelle condizioni ottimali per studiare come tutti gli altri».

Dislessia: i metodi che funzionano

Fatta la diagnosi, gli strumenti per compensare questa difficoltà non mancano. «Per uno o due anni è utile il lavoro con il logopedista, che aiuta a migliorare la comprensione e la costruzione dei suoni» continua l’esperto. «Poi ci sono molti metodi basati sull’uso del pc, alcuni in fase di sviluppo, e app specifiche per favorire l’apprendimento dei bambini dislessici». In certi casi è utile allenare la coordinazione occhio-mano con attività come infilare perline, modellare la plastilina, fare costruzioni.

A scuola, infine, i dislessici possono lavorare alla pari degli altri grazie a strumenti come calcolatrice, computer e registratore (per loro è impossibile seguire la lezione e, contemporaneamente, prendere appunti). Così potranno dimostrare tutto il loro valore.

Tanti strumenti utili per affrontare la dislessia

Per fortuna i dislessici nati nell’era digitale possono contare su tante risorse in più. Perché, da una parte, il mondo digitale evidenzia al massimo il loro problema ma, allo stesso tempo, offre loro le soluzioni giuste. «E lo fa in due modi: attraverso programmi computerizzati di riabilitazione che, se ripetuti ogni giorno, per 20-30 minuti, possano alleviare il problema. Sia potenziando le loro capacità» spiega l’esperto. «Per esempio con app di sintesi vocale, che trasformano il testo scritto in orale, i video e le scene in movimento. Insomma, oggi “apprendere” non è più sinonimo di “leggere”».

Oggi, poi, esistono anche programmi di riabilitazione che permettono allo specialista di monitorare a distanza, senza che il paziente debba uscire di casa, i miglioramenti fatti. «Ma occorre ribadire che usare un pc per migliorare le proprie capacità ortografiche, mnemoniche o di lettura non serve solo ai bambini dislessici: dal correttore automatico agli audiolibri che ci permettono di “leggere” un romanzo a puntate quando siamo nel traffico, tutti possiamo beneficiarne. La differenza tra un normolettore e un dilsessico, però, è che per quest’ultimo rappresenta lo strumento per raggiungere l’autonomia».

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