donne ai vertici

Andiamo a comandare: perché servono più donne ai vertici

Le donne sono quasi il 60% dei 3 milioni di dipendenti pubblici in Italia. Ma meno del 20% raggiunge posizioni apicali. Una disparità che frena la crescita di tutto il Paese. Per colmarla occorre cambiare le regole del gioco. Ecco come

«Ogni volta che mi chiedono un’opinione sulla sottorappresentazione delle donne ai vertici della Pubblica amministrazione, mi viene in mente un aneddoto» confessa Lucia Albano, vicesegretaria al ministero dell’Economia e delle Finanze. «Da donna delle istituzioni, ero invitata a una cerimonia ufficiale: quando l’auto si è fermata davanti al palazzo, le persone delegate a dare il benvenuto alle autorità, nel dubbio, hanno aperto lo sportello di chi mi accompagnava, mio marito. È un fatto piccolo, ma illuminante».

Divario di genere e di retribuzione

Invitata a partecipare a un incontro romano dal titolo eloquente, Rigeneriamo il sistema pubblico. Più donne nelle posizioni apicali, convocato dalla Federazione dei professionisti pubblici, Flepar, Albano ha puntato il dito sul tasso di occupazione femminile in Italia, il più basso d’Europa: «Abbiamo finalmente un presidente del Consiglio donna, ma in molti settori, anche pubblici, sussiste un importante divario di genere e di retribuzione che deve essere colmato con ogni mezzo».

L’inchiesta di Maccario sulle donne italiane ai vertici nella PA

Lo confermano i dati di un’inchiesta realizzata da Micol Maccario, giornalista di Domani, proprio su sollecitazione di Flepar, che ha denunciato come i nuovi capi dipartimento del ministero della Salute fossero tutti maschi. «Mi sono chiesta se questa fosse un’eccezione o se si incasellasse in un fenomeno più generale» spiega Maccario. Il quadro emerso avalla la seconda ipotesi. «Ci sono situazioni emblematiche: il ministero della Giustizia, articolato in cinque dipartimenti, tutti coordinati da uomini, o quello dell’Economia e Finanze, dove i maschi sono a capo di quattro dipartimenti su cinque, e potrei andare avanti».

La parità di genere influenza crescita e redditività

L’inchiesta è molto dettagliata: nella Pubblica Amministrazione italiana le donne rappresentano il 58,8% dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici, ma meno del 20 raggiunge posizioni apicali: sono il 18,4% nelle università, il 18,7 negli enti pubblici di ricerca, il 14,4 nelle ambasciate, il 18,5 negli enti pubblici economici, il 18,9 negli organi costituzionali o a rilevanza costituzionale. Tra i 90 dirigenti centrali nei ministeri, solo 19 sono donne; 27, su 262 amministratori unici, quelle a capo delle partecipate pubbliche (quotate e non). Una vistosa disparità che l’Unione europea ci impone di colmare, mentre gli studi internazionali ci rimandano un’altra evidenza lampante: la parità di genere influenza la competitività e la crescita anche nel settore pubblico. Al convegno di Roma è stata citata una ricerca del Boston Consulting Group, secondo la quale nel 2022 le aziende con almeno il 30% di dirigenti donne hanno registrato un aumento del 15% della redditività.

Più donne ai vertici? Bisogna cambiare le regole del gioco

«C’è una parola che non dobbiamo più aver paura di pronunciare: potere» raccomanda Daniela Bianchi, segretaria generale di Ferpi, Federazione relazioni pubbliche italiana. Sostengono le tante politiche, amministratrici e sindacaliste intervenute al convegno che il potere non è un obiettivo che le donne agganciano solo perché qualcuno costruisce intorno a loro un sistema di welfare: nidi, orari flessibili, smart working. Serve di più, una scossa dall’alto.

«Qui parliamo di ruoli decisionali, stanze dei bottoni, governance» continua Bianchi. «Le scelte delle amministrazioni pubbliche incidono sulla collettività dei cittadini. Per questo l’esercizio di un potere femminile è cruciale come forma di riequilibrio del processo decisionale. Se questo è in capo a un’unica prospettiva di genere, alla decisione finale che impatta su una comunità indifferenziata mancherà un punto di vista importante». È fondamentale, insomma, cambiare le regole del gioco, «perché quelle vigenti non ci permettono di giocare» commenta Daniela Carlà, dell’Associazione Noi Rete Donne. «Quando le regole sono chiare, come nei concorsi, le donne – studiose, tenaci – raggiungono le posizioni che meritano; quando invece è la politica a scegliere, perdiamo sempre».

Serve una cornice legale che normi il riequilibrio

Sorprende constatare come su questi temi prevalgano un accordo e un affiatamento che attraversa tutta la linea femminile dell’arco parlamentare: viene da pensare davvero a quanto beneficerebbe il Paese di una guida collegiale ed empatica con queste donne ai vertici. Tutte concordano sulla mancanza di una cornice legale che normi il riequilibrio. C’è bisogno, sostengono, di intervenire su un doppio binario: da un lato, rafforzare la legge Golfo-Mosca del 2011 – che, imponendo una quota femminile minima, ha prodotto ottimi risultati portando donne capaci nei Cda di tante aziende private – ed estenderla alle partecipate pubbliche; dall’altro, varare una normativa specifica per allargare l’obbligo della parità di accesso ai ruoli apicali e direttivi della Pubblica Amministrazione e degli enti pubblici.

Le donne ai vertici diventino “ascensore” per le altre

Sarebbe una riforma quasi a costo zero, suggeriscono. Anzi, stando alle statistiche, porterebbe benefici alle casse dello Stato. «Sarebbe tempestiva ed efficace» conferma l’avvocata Cristina Rossello, deputata di Forza Italia che nella scorsa legislatura si è battuta per ottenere la proroga della legge Golfo-Mosca. «Mi sono sempre impegnata a esercitare tutto il potere che ho, cercando, come tante colleghe, di essere per le altre una di quelle che Lella Golfo chiama “donne ascensore”. Penso alla forza che potrebbe avere una proposta di questo tipo. C’è tutto l’arco legislativo, non dimentichiamo che certi temi, lanciati in periodo elettorale, sono molto ascoltati ed è anche tempo di nomine per partecipate importanti: tante professioniste avrebbero i requisiti. L’esito è incerto? Se non proviamo, non lo scopriremo mai».

La rivoluzione culturale non è sufficiente

C’è chi invoca una rivoluzione culturale. L’Università di Trento lancia provocazioni simboliche come l’imposizione del femminile sovraesteso: così il rettore Flavio Deflorian diventa di colpo “rettrice”. Tiziana Cignarelli, segretaria generale di Flepar, riporta la questione su un piano pragmatico: «Ho la sensazione che si ricorra alla questione culturale quando non si sa che fare: pro invece a definire un’equa rappresentanza attraverso norme e direttive. Invece di chiamare rettrice un rettore, nominiamo una rettrice vera».

Con la collaborazione scientifica di Università degli Studi di Milano

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