L’odissea dei contratti a termine

Con il lockdown sono andati persi mezzo milione di contratti a termine. A essere più colpiti sono gli impieghi con qualifiche basse e in settori in crisi. Ma il problema è strutturale al mercato italiano. Gli esperti spiegano perché e quali interventi sono necessari 

Incertezza. È questo il clima che si vive nel mondo del lavoro travolto dal Covid-19, un periodo che ha visto, in molti casi, un peggioramento di condizioni e tutele. Da gennaio ad aprile sono stati persi 500.000 posti con contratti a termine rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (fonte Inps, Osservatorio sul precariato). E anche chi ne aveva uno a somministrazione, cioè ottenuto tramite un’agenzia interinale, ha subìto gli effetti della pandemia. «Il mio contratto scadeva proprio ad aprile e non mi è stato rinnovato perché il progetto a cui avrei dovuto lavorare è stato sospeso» spiega Lucia Visigalli, 26 anni, laureata e impiegata presso un’azienda di certificazione energetica. «Ne ho trovato un altro di 6 mesi, però meno vantaggioso del precedente, perché prima venivo pagata direttamente dall’azienda e mi veniva applicato il contratto collettivo che avevano i miei colleghi non interinali. Ora ricevo lo stipendio da un intermediario e, pur svolgendo le stesse mansioni, è più basso in quanto non mi viene applicato il contratto aziendale». Il Decreto Dignità del 2018 era nato proprio per combattere gli abusi dei contratti a termine, ma da marzo in poi la situazione è diventata complessa e a non essere soddisfatti delle regole che questo comporta sono sia gli imprenditori sia i lavoratori. Vediamo perché. 

Come funzionano i contratti a termine

Per capire meglio la questione bisogna fare qualche passo indietro. Spiega Valentina Cappelletti della Cgil: «Nel 2014 l’allora ministro del Lavoro Giuliano Poletti emanò un decreto in base al quale questo tipo di contratto veniva liberalizzato. In pratica, eliminava i limiti, la durata massima e la causale, quella in cui il datore di lavoro doveva spiegare per quale motivo il lavoratore veniva utilizzato a termine e non a tempo indeterminato. I contratti così potevano venire rinnovati più volte. Nel 2018, il Decreto Dignità reintrodusse dei limiti: il contratto può durare al massimo 12 mesi, reiterabili per altri 12. Niente causale per i primi 12, ma dopo 24 mesi il lavoratore deve passare a tempo indeterminato, non c’è un altro modo per trattenerlo se non stabilizzandolo, mentre prima il contratto poteva venir reiterato anche se il datore di lavoro doveva pagare una sanzione amministrativa».

Il caso di Domenico: un esempio per capire

Quello che sta succedendo, con questo tipo di regole, lo spiega bene la storia di Domenico. Domenico fa il cameriere alla Tipicheria di Succivo (Ce), che non è un semplice ristorante. È un bellisssimo esempio di recupero di un complesso tardo medievale, il Casale di Teverolaccio, gestito dalla cooperativa sociale Terra Felix. In primavera, oltre ai pranzi di famiglia, il locale avrebbe ricevuto le prenotazioni per le cerimonie (cresime, comunioni) ma sappiamo come è andata a finire. Tutti a casa e i ristoranti chiusi. «Abbiamo riaperto appena è stato possibile, però con un terzo dei posti» spiega Paola Pascale, project manager della cooperativa. «A Domenico, cameriere a tempo determinato per 3 mesi, siamo riusciti a prorogare il contratto fino al 31 luglio, poi non è stato più possibile. Avremmo dovuto sottoscriverne uno a tempo indeterminato, ma con la situazione in corso è difficile fare previsioni per l’autunno». Il risultato è che Domenico, pur bravissimo, da agosto è a casa e prenderà la Naspi, l’indennità mensile di disoccupazione prevista per i lavoratori subordinati il cui rapporto di lavoro è cessato involontariamente. 

Gli effetti dell’emergenza Covid sui contratti

È evidente come il Decreto Dignità, una misura che tendeva a stabilizzare i contratti atipici, alla fine abbia avuto un effetto contrario. Ovvero, aumentare la sostituibilità dei contratti a termine che non soddisfa né un lavoratore come Domenico né le aziende, che l’hanno vissuto come una norma capestro. «Ha voluto dire tornare indietro di 20 anni» afferma Andrea Malacrida, Country manager The Adecco Group in Italia. «Era il 21 febbraio quando io ho chiamato la filiale di Codogno e la situazione era drammatica. Tutti hanno pensato a supportare le aziende, alla Cig, nessuno si è occupato dei contratti a termine e ora corriamo il rischio di perdere 3 milioni e mezzo di posti di lavoro. Si procede con rinvii a singhiozzo e arriviamo al 18 luglio, giorno in cui viene pubblicata in gazzetta ufficiale, nel decreto Rilancio, la norma che prevede di prorogare i contratti di somministrazione per una durata pari al periodo di sospensione dell’attività lavorativa. È previsto poi che nelle aziende con contratti a tempo determinato sospesi in seguito alla Cig questi debbano proseguire per un periodo pari a quello in cui l’azienda ha preso gli ammortizzatori sociali. Purtroppo negli ultimi 2 anni si fanno leggi senza sentire gli addetti ai lavori e questa proroga di agosto non aiuta nessuno. Ancora una volta lavoratori e aziende dovranno singolarmente trovare una soluzione». 

Quali sono i settori “drogati” dai contratti atipici

«Prima del lockdown la durata media di un contratto interinale era di 30-45 giorni. Un dato che rende l’idea di quanto sia instabile il mercato del lavoro atipico. Il contratto a termine e quelli a somministrazione dovrebbero essere un’eccezione e non la regola» spiega Andrea Fumagalli. «Al suo posto il datore di lavoro potrebbe fare un contratto di apprendistato, poi passare a uno stabile. La possibilità di licenziarlo c’è comunque, è prevista dal Jobs Act, con un indennizzo al lavoratore di 3 mesi se succede entro un anno, di 6 mesi dopo due anni. Un indennizzo che è stato ridotto e non supera i 6 mesi, mentre con la legge Fornero si arrivava a 20 mensilità». Ma, al di là del Covid, il mercato del lavoro italiano sembra che non riesca a uscire da una situazione di permanente instabilità. «Il problema è strutturale» spiega Valentina Cappelletti. «È da almeno 20 anni che è drogato da lavori iperflessibili e questa situazione vale soprattutto per 2 tipi di profili professionali: quelli più bassi, per esempio i servizi alla persona o la logistica, o per quelli di alto livello ma che cercano impiego in settori in crisi, come l’editoria e la cultura. Fanno eccezione la chimica e la farmaceutica, in cui la necessità di avere personale preparato spinge a fare formazione, privilegiando rapporti di lavoro stabili e continuativi. E poi c’è la pubblica amministrazione che, con il blocco del turn over imposto per lunghissimi anni dai tagli lineari alla spesa pubblica, ha generato sacche enormi di precariato». 

In Italia la flessibilità resta precarietà

La situazione italiana non è la stessa di altri Paesi europei, dove il mercato del lavoro è più sotto controllo. «In Francia e Germania o sei assunto o fai la libera professione, noi invece abbiamo una situazione ibrida, con partite Iva e collaboratori autonomi» spiega Andrea Fumagalli. E la peculiarità italiana ha diverse conseguenze, che non riguardano solo il lavoratore: «La flessibilità non è di per sé negativa, perché cambiando posso avere più esperienza. Nella realtà, però, un lavoratore a termine si vede costretto a inseguire il suo reddito e a impegnare lì le energie» continua Fumagalli. «E, anche se trova un nuovo posto, è facile che debba ricominciare da capo. Non è un caso che l’occupazione si incrementi fra gli over 55, che assicurano esperienza e competenze, con la conseguenza di creare anche una sorta di tappo nel mercato nei confronti dei giovani. Tutti fattori che contribuiscono alla stagnazione dell’economia italiana e, per contrastarla, sarebbe indispensabile adottare politiche di sostegno alla domanda di lavoro, che favoriscono investimenti nelle tecnologie, nei settori strategici e in quelli ambientali: uno degli obiettivi prioritari del Recovery Fund varato dall’Unione europea». 

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