Se vai al ristorante e ti avanza cibo nel piatto accadono cose diverse a seconda del paese in cui ti trovi. Nei paesi anglosassoni, negli Stati Uniti e in Francia te lo incartano in modo da poterlo consumare a casa. Nei paesi scandinavi lo inseriscono in una macchina da compostaggio e ne fanno compost per gli agricoltori. In Italia, la maggior parte delle volte, rimane nel piatto e poi viene gettato via dai camerieri.

Ora c’è lo “zero waste”

A livello mondiale, ma soprattutto in Italia, la ristorazione è uno degli ambiti in cui c’è più spreco di cibo: da una parte i ristoratori tendono ad acquistare più cibo di quanto poi venga effettivamente cucinato e servito, dall’altra i clienti ordinano più di quanto poi effettivamente mangino e poi si vergognano a chiedere la “doggy bag” per portarsi a casa il cibo avanzato.

Alcuni ristoratori stanno prendendo consapevolezza del problema e si stanno attrezzando per evitare che il cibo venga buttato. I pionieri di questa filosofia sono soprattutto nel nord Europa, dove c’è una coscienza green decisamente più avanzata di quella italiana. I ristoranti “zero waste” (rifiuti zero) sono ancora pochi ma stanno prendendo piede perché sono espressione di un vero e proprio stile di vita “zero waste”, un movimento nato in America e diffusosi nel tempo anche nel resto del mondo (in Italia è rappresentato dalla Rete Zero Waste) che si focalizza non solo sulla riduzione di rifiuti ma anche su una maggiore consapevolezza durante gli acquisti da parte dei consumatori.

La certificazione “zero waste”

I ristoranti “zero waste” non si limitano a ridurre o eliminare completamente il packaging – come stanno facendo catene tipo McDonalds o Starbucks – ma concepiscono gli avanzi di cibo non più come un rifiuto da gettare bensì come qualcosa da trasformare. E per evitare che lo “zero waste” diventi l’ennesima operazione di marketing per attrarre clientela sensibile all’ambiente, ci sono organizzazioni che offrono certificazioni ai ristoranti che riducono i loro rifiuti in modo significativo, come ad esempio la “Sustainable Restaurant Association”, un’organizzazione con base nel Regno Unito che supporta le aziende che lavorano nel campo del cibo a diventare responsabili dal punto di vista ambientale.

SCOPRI TANTE IDEE E SOLUZIONI PER VIVERE IN MODO SOSTENIBILE NEL NOSTRO SPECIALE “GREEN&ME”

Lo spreco dei ristoranti italiani

Il modello zero-waste rappresenta un trend in crescita nella ristorazione, sostenibile non solo per l’ambiente ma anche dal punto di vista economico. Eppure in Italia stenta ad affermarsi. Laura Michelini e Ludovica Principato, ricercatrici di Lumsa e Roma Tre, nella ricerca Understanding Food Sharing Models to Tackle Sustainability hanno evidenziato che la maggior parte degli sprechi alimentari nella ristorazione avviene durante la fase di preparazione degli alimenti (45% del totale) o nei piatti dei clienti (34%) o per deterioramento dei cibi (21%). Questo vuol dire che il cibo viene buttato perché i gestori dei ristoranti a volte pianificano acquisti sbagliati o i clienti ordinano troppo cibo. La ricerca “Metronomo” dedicata allo spreco alimentare, condotta lo scorso anno dal Bocconi Green Economy Observatory per conto di Metro Italia, evidenzia che in Italia ogni anno si sprecano 5,6 milioni di tonnellate di cibo e il 57% di queste eccedenze sta nella prima parte della filiera, ossia produttori, distributori e ristorazione. In particolare in Italia a livello settimanale ogni ristorante e pizzeria butta oltre 600 litri di scarto.

Le resistenze culturali al doggy bag

Più che sulle strategie per ridurre il cibo ordinato e non mangiato o sul riuso degli scarti alimentari, in Italia si sta lavorando sulla diffusione del “doggy bag”, l’usanza di portarsi via il cibo avanzato nel proprio piatto. Perché da noi è ancora così poco diffuso mentre nei paesi anglosassoni è la norma e in Francia è obbligatorio per legge dal 2016? Questione socio-culturale, innanzitutto. Il 25 per cento degli italiani lo considera “volgare, da maleducati e da poveracci”. Forse perché non amano uscire dal ristorante col contenitore di alluminio in mano? O forse perché, pur essendo ecologico, non è spinto dagli sgravi fiscali come l’uso della bicicletta o del monopattino elettrico? Intanto la Fipe (Federazione pubblici esercizi) e Comieco (Consorzio per il riciclo carta e cartone) hanno fatto un accordo in base al quale, dopo una prima fase sperimentale su 1.000 esercizi pubblici, 30mila ristoranti proporranno la doggy bag.

Cibo avanzato, in Italia si compra sulle app

Quando hanno cibo prossimo alla scadenza o al deterioramento, alcuni ristoranti lo distribuiscono ad associazioni solidali oppure lo vendono a clienti privati tramite app. Regusto contiene proposte alimentari take away di cibo in eccedenza prodotto da hotel, caffetterie e ristoranti di Perugia, Roma e Milano. Il cliente può risparmiare fino al 50% sul prezzo di vendita indicato nel menù perché è scontato a seconda dell’orario della giornata: ad esempio di pomeriggio le lasagne rimaste invendute dal pranzo sono in super offerta. Too Good To Go, start up danese ormai presente in dieci 10 paesi europei compresa l’Italia, raccoglie le offerte di cibo prossimo alla scadenza in buono stato provenienti da panifici, supermercati e ristoranti. Il cliente può comprarlo tramite l’app scegliendo una “magic box”, una scatola con una selezione a sorpresa di prodotti e piatti freschi rimasti invenduti a fine giornata e che non possono essere rimessi in vendita il giorno successivo. I prezzi variano dai 2 ai 6 euro e in corrispondenza del prezzo c’è scritto qual è il loro reale valore. Una volta acquistata la scatola, si va a ritirare al punto vendita all’orario prefissato.

Anche Just Eat, colosso del food delivery, ha lanciato un’iniziativa per ridurre lo spreco alimentare: “Piatto Buono” è un piatto a sorpresa creato con prodotti freschi invenduti, surplus di cibo, prodotti non conservabili o prossimi alla scadenza. Si vende a prezzo scontato e lo si trova nel menù dei ristoranti partner di Just Eat. Per ogni “Piatto Buono” ordinato, Just Eat ne donerà uno a comunità e case accoglienza in collaborazione con le Caritas delle città di Milano, Torino, Roma e Napoli.