Adagio – puntata 3

Continua il nostro viaggio lento e appassionato nell’Italia da scoprire. Un racconto a puntate, a cadenza mensile, che coinvolge scrittori, giornalisti, studiosi, che raccontano i loro territori e scavano nella storia dei luoghi e nelle tradizioni della gente per farci conoscere un patrimonio prezioso.

Le puntate precedenti, firmate dalla scrittrice Donatella Di Pietrantonio e dalla zoologa Mia Canestrini, puoi leggerle su donnamoderna.com/news. Qui trovi il racconto di Anna Kauber, architetto, scrittrice e regista: ha girato il doc In questo mondo sulle donne pastore in Italia ed è autrice del libro Le vie dei campi (edito da Maestri di Giardino).

Le foto del servizio sono di Giacomo Fè
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di Anna Kauber, regista del documentario In questo mondo

Il mio Molise è una fotografia. Mi sveglio molto presto, salgo in auto e lascio alle mie spalle il borgo di Castropignano, un pugno di case che ospita poco più di 920 abitanti. Prendo la strada che porta alle Terre Alte, sull’Appennino molisano, in cerca di inquadrature per il documentario che sto girando sulla vita delle donne pastore in Italia, dalle Alpi all’Aspromonte. Seguo una rotta tutta curve in salita e, a una svolta, vengo fermata dal richiamo della bellezza.

Spengo il motore, afferro la videocamera, salto giù dall’auto e non posso che ringraziare di essere nata. Annuso l’aria, profuma di erba umida, di legno e di piante aromatiche. Sulla pelle sento che il freddo della notte sta lasciando il posto al calore del primo sole. Davanti a me si apre un paesaggio dolce attraversato da onde tonde e morbide, punteggiate da macchie di colore. Non ci sono picchi, non c’è asprezza. La nebbia che fino a poco fa sostava sull’altopiano si sta alzando lentamente per rendere tutto più nitido. In lontananza sento i rintocchi di una campana, immagino il campanile di una chiesa di campagna che dà la sveglia al paese e testimonia anche qui, in modo discreto, la presenza dell’uomo. È l’inquadratura perfetta e si imprime nella mia mente e nel mio cuore.

Castel di Sangro Molise
Il tratturo Celano-Foggia, 208 chilometri

Questo paesaggio è lo scrigno di uno dei tratturi più conosciuti dell’Italia meridionale, la strada verde che da Castel di Sangro, in Abruzzo, porta fino a Lucera, nel Tavoliere delle Puglie, attraversando le Terre Alte del Molise sul tracciato naturale degli Appennini. Lungo 130 chilometri, era una delle direttrici della transumanza, la migrazione stagionale delle greggi, delle mandrie e dei pastori che si spostavano dai pascoli di collina e montagna d’estate verso quelli delle pianure d’inverno, percorrendo gli stessi sentieri battuti dagli zoccoli degli animali fin dall’antichità. Accanto al percorso, che seguendo la valle del Trigno, supera il fiume Biferno e raggiunge Campobasso, fioriscono specie rare come l’eufrasia liburnica, il giglio rosso, la lupinella dei colli. Mentre in cielo volano il falco pellegrino, il nibbio bruno, l’averla, il biancone e la poiana. Percorrendo il sentiero con tutti i sensi all’erta per cogliere ogni particolare della sua bellezza, capisco che quando i romani parlavano di genius loci si riferivano a luoghi come questo, dove alberga uno spirito benigno che ne protegge l’autenticità. Dal mare alla montagna, il paesaggio molisano è ancora intatto. Meno compromesso di altri, non ha grande inquinamento e l’urbanizzazione è scarsa.

Il motivo me l’ha spiegato Rossano Pazzagli, amico e professore di Storia moderna del dipartimento di Bioscienze e territorio dell’università del Molise. Questa è una delle regioni più montuose del nostro Paese, emblema dell’Appennino e delle aree interne, che ha perso centralità proprio con il declino della transumanza: è stata messa ai margini dal modello di sviluppo novecentesco basato sull’industria e sulla città e quindi colpita dalla conseguente emigrazione. Basti pensare che è l’unica regione che ha meno abitanti oggi che al momento dell’Unità d’Italia nel 1861. Il tentativo di modernizzare il Molise con le realtà industriali degli anni ’70 non ha prodotto esiti positivi. Anzi, ha contribuito a svuotare i paesi e le campagne che insieme, con le tradizioni e i prodotti agroalimentari, sono le vere risorse di questa terra di mezzo tra le montagne dell’Abruzzo e il Tavoliere di Puglia.

Lago di Guardialfiera Molise
Il lago del Liscione visto dalle alture della Valle del Biferno in Molise

La ricchezza del Molise sta nell’essere una voce dissonante, un timbro non abituale in un mondo in cui molto appare sfruttato. Qui, a popolare il paesaggio appenninico, sono i pastori e i fiumi di greggi che li seguono placidamente. Su queste alture senti che i piedi si radicano e la terra chiede di essere ascoltata perché vuole raccontare le storie dei popoli che l’hanno abitata. Con loro intuisci subito di avere qualcosa in comune anche solo per il fatto di trovarti sullo stesso sentiero e di fronte allo stesso panorama. C’è un lungo filo che lega al passato e arriva fino ai Sanniti, i primi abitanti del Molise. Divisi in tribù si dedicavano alla pastorizia e, popolo di guerrieri, si prestavano alla guerra come mercenari.

A Sepino, antica roccaforte sannita passata sotto il dominio di Roma, è ancora possibile vedere i resti dell’abitato romano. Appare come un miraggio oltre le ultime alture e i boschetti intorno a Bojano e Guardiaregia e si trova proprio sul percorso dell’antico tratturo Pescasseroli-Candela. Dentro le sue mura ci sono il foro, la basilica, le terme, il teatro e le case coloniche che si allineano lungo il Decumano lastricato. Ogni luogo qui ha una lunga storia da raccontare e si dispone lungo le vie verdi che attraversano la campagna.

Nella regione più giovane d’Italia, nata nel 1963 staccandosi dall’Abruzzo, l’80% dei comuni ha meno di 2.000 abitanti e tutti sono collegati da tratturi. Nei campi in primavera e in estate fioriscono le ginestre e matura la sulla, un profumato foraggio per gli animali dal quale si ricava anche il miele. Gialle le ginestre, viola la sulla, verdissimi i pascoli, bianche le greggi. In mezzo a loro si distingue una donna, Carmela Colavecchio, che da sempre fa la pastora. Occhi grandi grandi e chiari, corpo possente, sguardo diretto. Ereditata l’azienda agricola dai genitori, tiene alto il vessillo della resistenza rurale con il marito Mario, che per lei ha abbandonato il posto in banca a Napoli e poi quello di istruttore di deltaplano in giro per il mondo, e il figlio Pietro, 15 anni, un piccolo principe vivace e già abituato a prendersi cura degli animali.

Pietra su pietra, Carmela ha costruito la sua casa e ha comprato delle pecore sarde da latte. Si sveglia ogni giorno alle 4.30, un’ora dopo se è inverno e si dorme di più, dà da mangiare alle pecore, le munge, si accerta che stiano bene e solo dopo fa colazione con ricotta e latte. Durante la giornata guida il gregge sui pendii delle montagne, prende vento e pioggia, assiste a parti e a morti, fa i conti con la solitudine. E sfida il senso comune di tanti che vorrebbero vedere una donna in altri ambiti, non certo con un bastone in mano arrampicata sui pendii dell’Appennino.

Gregge di pecore Abruzzo

Oggi la vita di Carmela, come quella dei pastori italiani dalle Alpi all’Aspromonte, non è scandita dalle grandi traversate. Ormai la transumanza esiste solo come pratica sporadica: da quando si è imposto lo sviluppo industriale non è più un sistema economico integrato e pervasivo di molte aree mediterranee. A contribuire alla perdita della tradizione dei grandi spostamenti e alla diminuzione del numero dei pastori ci ha pensato anche, soprattutto dagli anni ’70, il crollo del valore della lana. I materassi vengono fatti con altri materiali e si sono abbassati i costi di importazione delle varietà più pregiate da Nuova Zelanda e Australia.

Le lane delle pecore italiane, povere e ruvide, andavano bene fino a che non si sono alzati gli standard di vita e si sono preferite le qualità merinizzate. In Italia sono state ibridate 2 razze, la Sopravvissana e la Gentile di Puglia, che hanno il vello più morbido, ma non è bastato. Così i pastori sono sempre meno, anche se non esiste un dato vero e proprio perché dai censimenti decennali dell’agricoltura è possibile capire quante sono le aziende zootecniche o addirittura ovine, ma ormai sappiamo che l’allevamento non corrisponde più alla pastorizia.

Quelli rimasti, più che transumanze, fanno monticazioni di qualche giorno, in parte a piedi, in parte trasportando gli animali sui camion, con tappe nei rifugi messi a disposizione da privati e dalla Protezione civile. Gli antichi tratturi vengono tutelati da alcune amministrazioni che non vogliono perderne la storia e la tradizione. I sindaci chiedono ai pastori vicini di portare i loro animali su un tratto di queste grandi vie verdi per cercare di salvaguardarne le specie endemiche, come l’orchidea spontanea che cresce proprio al confine tra Molise e Campania.

Acquaviva Collecroce Molise
Il paese di Acquaviva Collecroce, in Molise

I tratturi vengono tenuti in vita anche dai pastori che non si arrendono alla necessità di cambiare mestiere. Stringono sodalizi con i macellai per spiegare ai clienti che se comprano il salame e il prosciutto di cornigliese salvano questa specie di pecora dall’estinzione e contribuiscono alla biodiversità.

Il viaggio del mio documentario In questo mondo vuole raccontare la storia di una minoranza nella minoranza, le donne pastore, che ancora sentono forte l’attaccamento alla terra e ai loro animali. La narrazione inizia in Piemonte con Maria Pia che va alla ricerca di un agnellino nella nebbia, prosegue in Veneto con Caterina che suona il violino mentre le pecore pascolano e in Trentino-Alto Adige dove Rosina consiglia la raccolta del fieno con il forcone come potente antidepressivo. In Sardegna Efisia si è presa una rivincita su chi le diceva che era buona solo per lavare i piatti e lucidare i pavimenti, mentre Maria in Basilicata munge il latte per gli agnellini che non hanno la forza di ciucciare.

Come le altre, anche la pastora molisana Carmela ha un modo molto particolare di occuparsi dei suoi animali. Pospone sempre le sue necessità alle loro, non molla mai, passa le notti nella stalla se una pecora sta male. Mette nella cura qualcosa di molto peculiare che ha a che fare con la genetica e con l’essere madre nel senso più ampio del termine. Tutela la vita a tutti i costi proprio come la terra che le dà da vivere. Nel suo lavoro, forse meglio degli uomini, capisce il cerchio della vita e ne fa parte con le emozioni e le sensazioni che questo richiede. Il Molise, un piccolo mondo antico, autentico e intatto, è la sua casa; la terra, la famiglia, gli animali sono la sua storia.

Testo raccolto da Alessia Cogliati