Chi è Julia Ducournau, la regista che ha vinto Cannes

È la regista di “Titane” il film vincitore. Tra fantascienza e horror, estremo e violento, è stato considerato una metafora di inclusività. «Non si era mai vista una donna messa incinta da una Cadillac: è pazzesco, genio e follia» ha spiegato Spike Lee, presidente della giuria

Per la seconda volta in 74 edizioni, e a 28 anni da “Lezioni di piano” di Jane Campion, la Palma d’oro del Festival di Cannes del 2021 è andata a una donna, la 37enne regista di “Titanie”, Julia Ducournau. Un premio che ha sollevato molte polemiche. In una rassegna senza neppure un titolo che fosse acclamato all’unanimità come capolavoro, la regia presieduta da Spike Lee ha deciso di premiare il coraggio e l’originalità di un film estremo e violento, tra fantascienza e horror, considerato però simbolo dell’inclusività anche se non conforme al gusto del grande pubblico. 

«Non si era mai vista una donna messa incinta da una Cadillac: è pazzesco, genio e follia» ha spiegato Lee, primo presidente nero della Croisette, che aveva promesso di scompigliare le scommesse sui grandi favoriti come “The French Dispatch” di Wes Anderson, pieno di star hollywoodiane, o “Annette” di Leos Carax, musical con Marion Cotillard e Adam Driver. Detto e fatto. 

Cosa racconta “Titane” il film vincitore

“Titane” racconta la storia di Alexia (l’esordiente Agathe Rousselle), sopravvissuta a un incidente da bambina grazie a un intervento chirurgico e a un inserto di titanio nella testa. Diventa una ragazza dura e solitaria, oltre che un’assassina. Ha una fissazione morbosa per le automobili, al punto da fare la ballerina stesa su qualche cofano, in locali o vetrine. E, appunto, resta incinta dopo aver “fatto sesso” dentro e con una Cadillac. Per sfuggire alla polizia decide di sfigurarsi e spacciarsi per il figlio, scomparso dieci anni prima, di un pompiere (un Vincent Lindon iperpalestrato), il quale è così affranto che vuole crederle contro ogni evidenza fino a vederla partorire uno strano essere, anche quello un po’ metallico. 

«So che il mio film non è perfetto, qualcuno dice sia mostruoso, ma per fortuna questa giuria dice di volere un mondo più inclusivo: grazie per aver accolto i mostri» ha commentato la Ducournau già autrice di “Raw – Una cruda verità” (2016), dove una veterinaria vegetariana scopre le gioie del cannibalismo. Il film arriverà anche in Italia, distribuito da I Wonder, non si conosce ancora la data di uscita. 

Marco Bellocchio e il sucidio del fratello

La Palma d’oro d’onore a Marco Bellocchio – di cui è appena arrivato nelle sale il documentario “Marx può aspettare” – ha consolato gli italiani del mancato premio a “Tre piani” di Nanni Moretti, unico film del nostro paese in concorso al Festival. Il film scava in una storia personale del regista de “Il traditore”: il suicidio del fratello gemello Camillo, a 29 anni, nel 1968, proprio l’anno della contestazione. Le interviste agli altri fratelli, a testimoni come la sorella della fidanzata di Camillo, lo psichiatra Luigi Cancrini, un prete, insieme alle memorie dello stesso Marco Bellocchio, compongono un ritratto non solo della sua ma di tutte le famiglie italiane, delle nostre radici culturali e cattoliche, oltre che delle rimozioni che il regista confessa a cuore aperto. «Non ricordavo neppure la lettera, ora ritrovata, in cui mi chiedeva se avrei potuto coinvolgerlo nel mondo del cinema. E quando mi parlò del suo disagio, gli chiesi perché non aderiva anche lui alla rivoluzione del ’68, mettendo da parte la sua sofferenza. Allora non capii la sua risposta: “Marx può aspettare”».

Gli altri premi

Gli altri premi sono andati a film più tradizionali, con due ex-aequo a rivelare le discussioni probabilmente accese della giuria. Gran premio per “A Hero” dell’iraniano Ashgar Farhadi, che centra i suoi film su scelte morali dalle conseguenze impreviste (“Una separazione”, “Il cliente”) e anche per “Compartment n. 6” del finlandese Juho Kuosmanen, che racconta l’incontro-scontro in treno tra due persone molto diverse. Premio della giuria a “Memoria” del thailandese Apichatpong Weerasethaku, con Tilda Swinton che va nella foresta amazzonica per capire il mistero di strani boati sentiti solo da lei, a parimerito con “Ahed’s Knee” dell’israeliano Nadav Lapid, contro ogni censura. Miglior regista: il francese Leos Carax, che ha aperto il festival con il musical punk rock “Annette”. Miglior sceneggiatura: “Drive my car” di Ryūsuke Hamaguchi, tratto dall’omonimo racconto di Haruki Murakami sul rapporto tra creatività e sessualità, e tra Yusuke, attore e regista teatrale, e la scrittrice Oto, che fa sesso mormorando le fantasie erotiche da trasformare in racconti. E ancora, gli attori: la migliore è la norvegese Renate Reinsve per “The Worst Person of My Life” di Joachim Trier, che ritrae una giovane donna tra gli amori e la carriera; il migliore, l’americano Caleb Landry Jones che si è calato nei panni del responsabile della strage di Port Arthur nel 1996, nel film “Nitram” dell’australiano Justin Kurzel. 

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