Il senso della vita è in un fiore di ciliegio

I fiori di ciliegio che ci incantano con la loro bellezza, in Giappone sono il simbolo della transitorietà della vita. In questo momento in cui tutti ci confrontiamo con la malattia e la morte, la cultura giapponese ci insegna a riconciliarci con il nostro destino di esseri umani 

Fermiamoci a riflettere sul ciclo della vita

Tra le occasioni perse di questo difficile periodo c’è anche quella di una mancata riflessione sulla morte, del tentativo di riconciliarci con essa. In questa parte del mondo, infatti, non esiste parola più scandalosa di quella della morte, esclusa totalmente dalla concezione quotidiana dell’esistenza: dalla vita eterna del cristianesimo, alle chirurgie estetiche che tolgono i segni del passare del tempo, il sogno occidentale è un desiderio impossibile, quello di vivere per sempre, di non morire mai. Nemmeno un momento come questo, segnato da malattia e morte, è riuscito a portare la riflessione verso l’unica caratteristica certa della vita, che è quella della sua fine. Questa mancata riflessione è ancora più evidente in un’epoca globale dove le informazioni transitano con facilità e anche le tradizioni di civiltà lontane sono studiate e conosciute. È il caso della cultura giapponese che tanto seguito ha anche in Italia ed il cui rapporto con la morte è molto diverso dal nostro. Raccontarlo potrebbe aiutarci a riconciliarci con essa.

Fiori di ciliegio e cerimonia del tè, ogni attimo è unico e irripetibile 

In Giappone l’idea della fine fa parte del quotidiano. Non è un caso, infatti, che due dei simboli più conosciuti e identificativi della cultura nipponica, il fiore di ciliegio e la cerimonia del tè, si sviluppino intorno all’idea del passaggio, del cambiamento, intorno alla riflessione su un gesto o un oggetto che in brevissimo tempo finirà. L’amore dei giapponesi per il sakura, fiore bellissimo, delicato e visibilmente perituro, è proprio dovuto al fatto che rappresenta la quintessenza della transitorietà, dell’impermanenza: esso è una metafora della vita e ci ricorda il nostro destino. Durante il medioevo nipponico, una delle classi più importanti della società giapponese, quella dei samurai, cioè i guerrieri, scelse proprio il fiore di ciliegio come simbolo. 

Anche la cerimonia del tè, arte che oggi conosciamo come performance estetica di moda soprattutto tra le signore, fu a lungo appannaggio dei samurai. Essa veniva praticata anche prima di andare in battaglia: rasserenati gli animi, i guerrieri giapponesi potevano morire tranquilli. Il principio su cui si basa la cerimonia del tè è quello dell’ichi-go ichi-e, letteralmente “una volta, un incontro” e sta ad indicare quanto ogni momento sia unico e irripetibile, transitorio come la vita del fiore di ciliegio e, dunque, la nostra. 

Shintoismo e buddhismo, le religioni della transitorietà

D’altra parte tutta la cultura giapponese si sviluppa intorno al culto shintoista e alla filosofia buddhista che fanno della transitorietà il punto centrale della loro riflessione sull’uomo e sull’esistenza. È luogo comune ritenere che i giapponesi si rivolgano allo shintoismo nei riti di celebrazione della vita come la nascita, i “battesimi”, i passaggi alla maggiore età, mentre sia il buddhismo la filosofia che accompagna l’uomo nel momento della sua scomparsa. In effetti, formalmente è così, anche se di fatto, ad una più attenta riflessione, è evidente come entrambe queste filosofie abbiano alla loro base l’idea costante del passaggio: i riti shintoisti – lo shintoismo non è una religione dato che manca, ad esempio, di un testo sacro dal quale ricavare dei dogmi. Essa è piuttosto un culto che si forma attraverso il senso comune dell’esperienza dell’uomo nel mondo – legano indissolubilmente la cultura giapponese alla celebrazione del ciclo della natura, ovvero a quel continuo susseguirsi di fine e inizio. 

Si tratta, insomma, dello stesso concetto del fiore di ciliegio, solo che è considerato in un arco temporale più dilatato. 

Il morto, in Giappone, sta dentro casa, nel butsudan – l’altare casalingo – e torna a farci visita in estate, durante l’Obon: è lui a visitare noi, e noi ad “accogliere” lui, il morto, e dunque la morte. È così che la morte torna a essere parte della vita: durante l’Obon “si pranza” con il defunto appoggiando prelibatezze sul suo altare, gli si parla delle cose terrene, dei nostri problemi come se fosse presente, gli si presenta il fidanzato oppure il nuovo nato: è in questo rito che lega indissolubilmente vita e morte che la morte diventa qualcosa di naturale, accettato e accettabile. Non c’è niente di sacrilego nel festeggiare “col morto”. Lo abbiamo fatto spesso in primavera, durante il periodo dell’hanami, con molti amici italiani e giapponesi con i quali abbiamo organizzato pic-nic all’Aoyama Botchi, il bellissimo cimitero di Aoyama, nel cuore di Tokyo, caratterizzato da viali pieni di alberi di fiori di ciliegio, vicino alla tomba di Edoardo Chiossone (un illustre italiano che svolse un ruolo importantissimo per la zecca giapponese) a mangiare e a fare giochi all’aperto: era il nostro modo “giapponese” per ricordarlo.

Parallelamente, il buddhismo, in particolare lo zen, ha alla base l’idea che ogni istante dovrebbe essere vissuto come se fosse l’ultimo. Ogni momento è pervaso dall’idea dell’accettazione della fine quale fenomeno naturale, scontato, addirittura banale. È anche per questo che la morte non è vissuta come qualcosa di estraneo, o lontano. 

Seppuku, la morte come scelta

Per i giapponesi, insomma, la morte fa parte della vita e di questo non si dimenticano mai. La morte è un fatto naturale, come lo sono gli tsunami, i terremoti, gli incendi ai quali, i giapponesi, sono abituati e a cui rispondono sempre con molta dignità. Che non è rassegnazione, si badi bene, ma accettazione dell’inevitabile, di qualcosa che non potrebbe essere altrimenti. Ma la morte è nella cultura giapponese può essere tante cose. C’è stato un periodo storico in cui poteva essere anche una scelta, addirittura onorevole. Il suicidio rituale, conosciuto col nome di seppuku o harakiri, è entrato fuori legge con la riforma del codice civile dell’epoca Meiji (1868 – 1912), ma nel medioevo toccò in sorte a molti monaci buddhisti, artisti e intellettuali, compreso Sen no Rikyū, il più importante maestro del tè mai vissuto. 

Danshari, liberarsi di ciò che non serve più 

Il percorso della vita, insomma, non è per sempre. I giapponesi lo sanno e trovano le parole per dirlo, per raccontare che tutto ciò che possiamo fare qui è prepararci al meglio alla partenza. È il caso di danshari, parola che indica la pratica attraverso la quale ci si alleggerisce del superfluo, di ciò che non serve più, al fine di arrivare al momento estremo più liberi e leggeri possibili: si vendono le case, si buttano via i vestiti vecchi, si tiene solo lo stretto necessario. D’altra parte la morte è un soffio e ci vuole senza fronzoli: nulla di ciò che è di qua lo portiamo nell’aldilà. Non solo, esiste anche un’altra parola che indica la pratica di preparare la propria uscita da questo mondo: shukatsu. Con essa si indica l’attività di organizzare il proprio funerale, di disporre delle proprie volontà non solo redigendo un testamento, ma accomodando anche quelle piccole cose che nulla hanno a che vedere con gli aspetti legali ma che ci fa piacere sapere sistemate. I giapponesi sono gente pratica e per non sbagliarsi si sono inventati anche taccuini ad hoc, gli “ending notes” così, anche nel caso di morti solitarie o improvvise, chi si occuperà di noi saprà dove poter rintracciare pratiche indicazioni

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