Le botteghe italiane si aprono al delivery online

Sfidano i giganti del delivery e puntano al rapporto diretto tra negozianti e abitanti. Sono i nuovi servizi di quartiere, che rispettano il lavoro dei fattorini, aiutano i piccoli commercianti e vanno incontro ai clienti meno tecnologici. Con ottimi risultati

Sono diventati una presenza naturale nelle grandi città, soprattutto da marzo in poi, complici le restrizioni dovute alla pandemia. I rider di giganti come Glovo, Just Eat e Deliveroo hanno letteralmente invaso il mercato delle consegne di cibo a domicilio: secondo una ricerca di Netcomm, il consorzio italiano del commercio digitale, le vendite online di beni di largo consumo, tra cui i generi alimentari, sono cresciute del 50% a settimana per tutto il 2020 (con picchi fino al 288%). Ma la corsa al 2.0 rischia di lasciare indietro chi, per natura, costruisce il successo sul rapporto umano e fisico con i clienti: fornai, fruttivendoli, macellerie e pescherie, negozi e botteghe poco avvezzi agli intermediari digitali.

Ad aiutarli a colmare il gap ci hanno pensato, da Nord a Sud, giovani imprenditori che hanno intravisto le potenzialità di una rivoluzione: portare il food delivery a misura di quartiere, sfidando con qualità e riconoscibilità i colossi della gig economy. Un modello replicabile (e già replicato) nei paesi più piccoli, dove la app-mania, finora, non ha attecchito quanto nelle metropoli. Ecco 3 esperienze diverse.

Il rider di Daje! a Roma

«Sono stipendiato fino a fine mese. Le signore mi conoscono e mi offrono anche il caffè». La colonna portante del progetto Daje!, start up romana nata a marzo dall’iniziativa di 2 laureati in Economia, si chiama Fabrizio Leopardi: ha 23 anni, studia Scienze motorie e ogni giorno gira per le strade di Monteverde a bordo della sua Lancia Ypsilon, consegnando i migliori prodotti delle botteghe di quartiere. Sul sito Daje.shop è definito “il rider ufficiale” ma, a differenza dei colleghi delle grandi app, è un dipendente assunto e stipendiato a fine mese.

«Non è la mia prima esperienza da fattorino, ma è diversa da tutte le altre» racconta. «Non ero mai contrattualizzato, spesso mi pagavano in nero e il rapporto con i clienti non è paragonabile. Ormai le signore più anziane mi trattano come un nipote. E mi offrono il caffè, anche se con il Covid sono costretto a rifiutare». Proprio questa, raccontano i fondatori, è la missione di Daje!: replicare online i rapporti di vicinato tipici di ogni quartiere. «Notavamo che nella nostra zona, Monteverde, il lockdown costringeva i piccoli esercenti a rivolgersi alle grandi app di consegne a domicilio» ricorda Jacopo Gambuti, 29 anni, socio della start up insieme a Matteo Proietti, 25. «Parliamo di pasta fresca, frutta e verdura, gastronomie: negozi con disponibilità di prodotti molto volatile, non certo il target di Just Eat o di Glovo. Così il 20 marzo abbiamo creato un semplice sito che gestiva gli ordini di 6 botteghe. Una cosa artigianale: il cliente scriveva il prodotto che cercava, noi telefonavamo al negoziante».

I feedback sono stati buoni da subito, in breve tempo alla start up si sono rivolti nuovi esercizi. «Abbiamo iniziato a fare le consegne, attivato le ordinazioni direttamente sul sito, messo su un listino prezzi e ampliato il raggio d’azione. Adesso copriamo 3 zone, Monteverde, Testaccio e Marconi, con 90 esercizi convenzionati: non più solo alimentari, ma anche mercerie, cartolerie, lavanderie e prodotti per la casa. Clienti e negozianti ci chiamano per nome. Da noi le persone trovano i loro negozi di fiducia, mentre i commercianti hanno la certezza di rivolgersi alla loro clientela, senza concorrenza spietata né intermediari anonimi. E, a differenza delle classiche app di delivery, il sistema permette di riempire il carrello con prodotti di negozi differenti e ricevere tutto insieme».

L’imprenditore di Tattà a Napoli

«Offriamo ai negozi commissioni più basse delle grandi app». In dialetto vuol dire “subito subito”: l’artefice di Tattà è Christian Barone, ingegnere informatico 36enne, già fondatore di un marketplace dedicato a gadget e prodotti dell’universo partenopeo. «Aprirci alla consegna del cibo è un’evoluzione naturale che avevamo in mente da tempo: la pandemia ha solo accelerato il tutto» spiega Christian. «Un’indagine di mercato ci ha fatto capire che molte botteghe di Napoli, tra cui pizzerie storiche come Sorbillo, chiedevano commissioni più basse e un servizio locale, sviluppato sul territorio, per non essere schiavi delle app. E allora eccoci qui: per farcela ho unito le forze con mio fratello, che ha già un’azienda di consegne a domicilio. L’obiettivo è assumere i corrieri, niente cottimo, e consegnare in tutta la provincia. Abbiamo già 150 convenzioni, il 90% nel settore alimentare».

A differenza dei “cugini” di Roma, Tattà punta a fare concorrenza diretta ai colossi del delivery, offrendo un’alternativa a pizzerie e fast food che adesso si affidano ai rider delle multinazionali. «Ciò che offriamo in più è l’identità, la garanzia di poter parlare con chi gestisce il servizio e accorciare le distanze. Oltre naturalmente a commissioni più basse, il 20% contro il 30-35% delle app più famose. E poi promettiamo un’altra cosa: ogni guadagno lo investiremo sul territorio, a chilometro zero, per far crescere l’economia locale. Per un napoletano non c’è nulla di più importante».

La cliente di Mercôu a Genova

«Posso ordinare la frutta dal mio mercato preferito. E al telefono rispondono sempre». Dare la possibilità di ordinare direttamente dal Mercato orientale di via XX settembre, il più antico e famoso della città: è l’idea di Mercôu, delivery di quartiere nato durante il primo lockdown e in pochi mesi in cima alle preferenze dei genovesi più affezionati dei banchi storici di carne, pesce e formaggi. Una di loro è Patrizia Baiardo, 70 anni, medico in pensione: «Non sono mai stata abituata a farmi portare la spesa casa, ho sempre amato andare al mercato nel fine settimana ma con il lockdown ho dovuto rinunciare a questo piacere e cambiare le mie abitudini. Se questo servizio fosse esistito qualche anno fa, quando ancora lavoravo, l’avrei di certo benedetto». Le consegne, per scelta, sono a emissioni zero, in furgoncino elettrico o bicicletta.

«Il cliente tipo» spiega la fondatrice Veronica Arato, 28 anni «risponde a 2 profili: c’è la madre di famiglia giovane e in carriera, abituata a ordinare sul web, che non ha tempo di andare al mercato e non vuole rinunciare alla qualità. Ma anche donne tra i 60 e i 70, come la signora Patrizia, che magari all’inizio avevano qualche difficoltà a usare la piattaforma e quindi ci chiamavano al telefono ma col tempo sono diventate del tutto autonome». La cliente conferma: «Non ho mai fatto la spesa su Internet perché la trovavo anonima, qui però è diverso, ti confronti con delle persone. Se hai un problema puoi chiamare e dall’altra parte c’è sempre qualcuno che ti risponde. E sono così gentili che ormai sono affezionata».

Il piano di Veronica e soci era di coinvolgere nell’e-commerce negozi che in altri momenti non ne avrebbero avuto interesse. Come chi gestisce un banco al mercato, mondo in apparenza allergico a ogni transizione digitale. Ha funzionato: a 7 mesi dall’esordio, Mercôu ha una base di ordini costante e consegna in tutta Genova i prodotti di 13 esercizi, tra cui botteghe storiche del centro come il pastificio Danielli o la cioccolateria Buffa. «All’inizio abbiamo dovuto vincere una certa diffidenza, e in questo senso il lockdown ha aiutato» racconta Veronica. «Ma dopo la riapertura dei negozi ci siamo accorti che i clienti erano ormai fidelizzati e gli ordini rimanevano costanti. Penso che il segreto sia stato costruire un rapporto di fiducia con i nostri partner. E chiedere commissioni inferiori rispetto alle app di delivery, intorno al 10-15% dell’ordine».

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