Pausa caffè: si può fare (ma non è un diritto)

La Cassazione interviene con una sentenza sul caso di due dipendenti che risultavano assenti e si erano invece solo allontanati dall’ufficio per prendersi un caffè senza timbrare il cartellino

Pausa caffè: sì, no, forse. Sulla possibilità di allontanarsi dall’ufficio per prendersi un caffè o per comprare un pacchetto di sigarette c’è ancora confusione. Una sentenza della Cassazione, però, si è appena pronunciata sul caso di due dipendenti e in parte li ha assolti per aver lasciato il posto di lavoro e aver fruito di qualche minuto di pausa. Ma cosa si può fare, cosa dice la legge e quando si incorre in un reato?

Il caso: caffè e sigaretta fuori ufficio

Il caso su cui sono intervenuti i giudici della Cassazione riguardava due lavoratori che erano risultati assenti dall’ufficio in seguito ai controlli dei carabinieri. Uno dei due si era allontanato dalla scrivania per una pausa caffè, mentre il secondo si era recato dal tabaccaio per acquistare le sigarette.

Entrambi non avevano timbrato il cartellino. Trattandosi di pochi minuti i due dipendenti hanno fatto leva sulla cosiddetta “tenuità del reato” e uno dei due aveva anche ricordato che il capo lo aveva autorizzato a voce, perché sul posto di lavoro non era presente un distributore automatico di bevande per poter prendere un caffè. Detto così, non sembra una cosa poi così grave.

Cosa hanno stabilito i giudici

Eppure, allontanarsi dal posto di lavoro per concedersi una pausa caffè o sigaretta può costare caro. Il problema sta proprio nel non aver timbrato il cartellino. Si può infatti incappare nel reato di falsa attestazione della presenza se ci si allontana dall’ufficio senza che questa sia rilevata dal sistema di controllo delle presenze (quindi il badge o il cartellino), anche se ad autorizzare la pausa è stato il capo, a voce.

È partendo da questa considerazione che la Cassazione ha confermato la condanna nei confronti di due dipendenti con una sentenza (n.29674/2021) che però apre la strada a una attenuante, facendo riferimento proprio alla “tenuità del reato”. In pratica la Cassazione ha confermato la fattispecie del reato, ma ha accolto il ricorso dei lavoratori riferito alle loro giustificazioni.

La falsa attestazione della presenza riguarda solo i dipendenti pubblici

In pratica, i giudici della Cassazione hanno ribadito che il lavoratore, per allontanarsi dal posto di lavoro per una pausa, deve avere sempre l’autorizzazione del datore di lavoro, per non incappare nella «falsa attestazione della presenza», prevista dalla cosiddetta legge Brunetta. Si tratta del nuovo testo dell’art. 55-quater riguardante il licenziamento disciplinare (comma 1 bis) secondo cui costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione circa il rispetto dell’orario di lavoro. In parole povere, non timbrare il cartellino o far passare il badge a un collega.

«Il reato, però, è previsto solo se si è dipendenti pubblici, non privati. In entrambi i casi il datore potrebbe far scattare sanzioni disciplinari, fino al licenziamento. Il dipendente dovrebbe sempre assicurarsi di non lasciare scoperto il suo ruolo, ad esempio chiedendo a un collega di sostituirlo in sua assenza. Ma il reato c’è solo per i dipendenti pubblici per espressa previsione di legge» spiega l’avvocato Marisa Marraffino.

La pausa caffè non è un diritto

Per lo stesso principio, il reato scatta anche se per poco tempo, per una pausa veloce oppure se manca la macchinetta del caffè in azienda e quindi si dovrebbe uscire dal luogo di lavoro, perché il caffè non è considerato una necessità. «D’altro canto, basta pensare al caso di un addetto alla sicurezza che si assenti per il caffè, lasciando incustodita la guardia» osserva spiega l’avvocato Marisa Marraffino.

Insomma, la pausa caffè non è un diritto assoluto: «Esatto. Nel settore privato in genere si chiude un occhio, intanto perché non è mai reato prendere un caffè e poi perché piccole pause sono in genere tollerate, salvo casi particolari in cui diventa rischioso assentarsi anche per pochi minuti» chiarisce Marraffino. Il lavoratore, insomma, pur avendo diritto a pause (differenti a seconda del tipo di lavoro, del contratto nazionale o degli accordi con l’azienda), non può “pretendere” di poter prendere il caffè o fumare la sigaretta decidendo autonomamente il momento che ritiene più adatto.

È sempre obbligatorio strisciare il badge

Ma quando serve l’autorizzazione del capo? «Diciamo che vale la consuetudine, come nel caso della sentenza. Se il datore ha sempre lasciato correre, è più facile applicare la tenuità del fatto. Il reato comunque per il pubblico dipendente scatta se non si dichiara l’assenza dal lavoro, facendo invece risultare di essere in servizio. Si dovrebbe, quindi, far risultare sempre la pausa dal badge. Non è una novità, perché la Cassazione si era già pronunciata in questo senso» spiega l’avvocato.

Quando scatta la “tenuità del reato”?

Quando è riconosciuta la “tenuità” e quando la ripetitività del gesto è invece un’aggravante? «Sulla ripetitività la Cassazione dice che la reiterazione va dimostrata in concreto, non bastando allusioni dei lavoratori. Se non ci sono prove, quindi, deve essere applicata la tenuità del fatto. Consiste in una specifica causa di non punibilità, che nel caso in questione era stata esclusa in primo grado e in appello. In pratica, il reato sussiste (resta dunque nel casellario dei due lavoratori), ma non è punibile – chiarisce l’avvocato Marisa Marraffino – Restano, ad esempio, le possibili conseguenze risarcitorie, dovranno ad esempio risarcire il danno eventualmente subito dall’ente pubblico».

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