Al lavoro fino al parto, cosa cambia davvero

La circolare dell'Inps ha sbloccato la possibilità di lavorare fino al giorno prima della nascita del figlio. Come funziona il nuovo congedo di maternità in Italia e all’estero

Se ne parla da mesi, ora la possibilità di lavorare fino al nono mese di gravidanza, usufruendo dell’intero congedo di maternità dopo il parto, diventa realtà. Le future mamme lavoratrici possono chiedere dunque di restare in ufficio o azienda fino al giorno prima della nascita del figlio, per stare a casa retribuite nei primi cinque mesi di vita del bebè, salvo il via libera del medico. A chiarire i termini della misura è una circolare dell’Inps, che di fatto sblocca le centinaia di domande già presentate all’indomani dell’inserimento della misura nella legge di Bilancio 2019. Ecco come funziona e cosa cambia davvero per le donne in gravidanza e maternità.

Cosa prevede la circolare

La nuova norma consente una maggiore flessibilità nella gestione dei cinque mesi di congedo obbligatorio previsti dalla legge sul congedo maternità in Italia. Questo significa che, oltre a poter scegliere se goderne con la classica formula 2+3 (2 mesi prima e 3 dopo il parto) oppure 1+4 (1 mese prima e 4 dopo la nascita), si potrà decidere di “astenersi dal lavoro esclusivamente dopo l’evento del parto entro i cinque mesi successivi allo stesso” come chiarisce l’Inps. «Dal punto di vista retributivo non cambia assolutamente nulla: le indennità, sia per la parte che spetta alle aziende (20%) sia per l’Inps (80%), rimangono nella stessa misura  che sarebbe spettata lavorando. Cambia solo la data a partire da quando decorre il congedo di maternità, per consentire alle madri che desiderano lavorare fino al parto (e poi stare più vicine al figlio una volta nato) di poter esprimere questa opzione» spiega Antonello Orlando, esperto della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. Unico requisito: avere il parere favorevole del medico curante.

Il certificato medico

Al momento della presentazione della domanda, entro il 7° mese di gravidanza presso gli uffici INPS o per via telematica, si dovrà dunque allegare il via libera del “medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato” e del “medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro”, che certificheranno che non ci sia “pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro” e che quindi si possa continuare a lavorare fino al giorno prima della data presunta del parto o comunque fino al giorno della nascita, nel caso fosse posticipata. «Naturalmente faranno eccezione le lavoratrici a rischio, escluse da questa possibilità. È il caso, ad esempio, delle parrucchiere che non possono rimanere in negozio fino al nono mese, sia perché lavorano in piedi, sia perché usano prodotti potenzialmente dannosi per se stesse e il bambino che aspettano» spiega Barbara Orlandi, responsabile del Coordinamento Donne della Cgil Toscana.

La nuova direttiva europea

In Italia alle neo mamme spettano 5 mesi di congedo obbligatorio retribuiti al 100% ai quali si possono aggiungere, su richiesta ed entro i 12 anni di età del figlio, altri sei mesi circa retribuiti al 30%. Sono anche previsti permessi per allattamento, pagati fino al primo anno di età del figlio. Ma come funziona all’estero? La Commissione Europea nel 1992 aveva previsto 14 settimane minime di congedo (direttiva 92/85/CEE), delle quali due obbligatoriamente prima del parto. Successivamente si è tentato di aumentare il periodo, ma senza che le proposte diventassero legge, almeno fino alla direttiva approvata lo scorso aprile dal Parlamento europeo e pubblicata in Gazzetta ad agosto. Due le novità: il congedo di paternità, fissato in minimo 10 giorni (sono 5 al momento in Italia) e il diritto a un congedo di 4 mesi per ogni genitore, non trasferibili all’altro per evitare che, come accade oggi, sia uno solo a usufruirne, in genere quello con lo stipendio inferiore. Per questo è anche stato stabilito che il periodo sia retribuito non meno dell’indennità di malattia. La direttiva dovrà essere recepita entro i prossimi tre anni, nel frattempo la situazione resta molto variegata. «L’Italia ha un congedo di maternità lungo e ben retribuito, forse un po’ mammocentrico perché a fronte dei 5 mesi obbligatori per la madre abbiamo un periodo di congedo per il padre, introdotto dalla riforma Fornero, di soli 5 giorni. In realtà la legge di bilancio del 2020 si propone di portarlo sperimentalmente a 7. Ricordiamo però che abbiamo anche il congedo parentale (molto meno indennizzato, ossia al 30% della retribuzione) che può essere goduto anche dal padre» spiega Antonello Orlando.

Come funziona in Europa

Al momento il paese che concede di più alla madri è la Bulgaria, dove sono previste 6 settimane di congedo di maternità obbligatorio prima del parto e 52 (la maggior parte facoltative) dopo la nascita del figlio, con una retribuzione del 90%. All’estremo opposto si trova il Portogallo, con solo 6 settimane dopo il parto, ma obbligatorie, mentre prima ne sono previste 4 facoltative (al 100% dello stipendio). Nel mezzo ci sono, per esempio, la Polonia con 20 settimane (5 mesi circa) di congedo, delle quali sei prima del parto e obbligatorie, retribuite al 100%. In Francia, invece, le settimane di astensione dal lavoro pre-parto sono solo 3, mentre sono 13 quelle post-nascita, che arrivano complessivamente a 26 settimane dal terzo in poi, ma alle quali si aggiunge anche la possibilità di chiedere fino a tre anni di sostegni aggiuntivi come bonus per le baby sitter, asili nido e indennità mensili ulteriori.

Nei paesi scandinavi, noti per il loro welfare, generalmente il congedo è più breve, ma suddiviso in modo equo tra i genitori: in Svezia sono previste due settimane di “riposo” dopo la nascita del figlio, ma sia per la madre che per il padre contemporaneamente. Entrambi possono anche arrivare a 480 giorni di congedo facoltativo, pagato però all’80%. In Croazia, invece, le donne possono restare a casa fino a un anno dopo il parto, retribuite al 100%, anche se c’è la possibilità di scegliere se suddividersi il periodo a metà col padre. Anche in Albania il congedo per le neomamme è di un anno, ma con retribuzione ridotta: all’80% per i primi 5 mesi, al 50% per il restante periodo. Prendendo in considerazione, dunque, i fattori principali (durata e retribuzione del congedo), l’Italia risulta al settimo posto della classifica OECD, Organization for Economic Co-Operation and Development, alle spalle di Slovacchia, Grecia, Estonia e Polonia (pari merito), Cile e Repubblica Ceca. Secondo il report OECD, che ha fissato l’indennizzo medio come pari al 74,4% del normale stipendio, sono 12 i Paesi nel mondo nei quali non varia la retribuzione durante il congedo di maternità: Austria, Cile, Estonia, Germania, Israele, Lussemburgo, Messico, Olanda, Polonia, Portogallo, Slovenia e Spagna. Spicca come paese virtuoso anche la Norvegia (97,9%), mentre fanalino di coda nel continente europeo sono il Regno Unito (40% dello stipendio) e Irlanda (34,3%). L’Italia è nella parte alta della classifica, grazie alla durata del congedo e alla retribuzione (calcolata all’80%, perché il restante è a carico del datore di lavoro e non del welfare statale).

Più o meno fortunate?

Le neomamme lavoratrici negli Stati Uniti risultano tra quelle più penalizzate: non esiste una legge federale sul congedo di maternità e le norme variano a seconda dei singoli stati. In media dura 12 settimane, ma non retribuite a meno che si tratti di dipendenti di grandi aziende e a fronte di un contratto di lavoro di almeno un anno già in essere. Va meglio in Australia, dove madri e padri possono stare a casa per 18 settimane, ma con lo stipendio minimo, e fino a 52 settimane, ma non retribuiti. Salario tagliato al 55% anche in Canada per 15 settimane, alle quali se ne possono aggiungere altre 35 che possono chiedere entrambi i genitori. Se in Giappone il congedo è di 6 settimane pre-parto e 4 post-parto (pagate al 60%), sia madre che padre possono stare a casa fino a un anno di vita del figlio, ma senza retribuzione. Infine, in Russia il congedo è obbligatorio a partire da 70 giorni prima della nascita del figlio e nei 70 successivi, a stipendio pieno. È anche previsto un bonus fino ai primi tre anni di vita del bambino, destinato a chi se ne prende cura, nonni compresi.

Cosa cambia per le imprese

In Italia, a differenza di altri Paesi nei quali ci sono molte grandi aziende (come Google negli Usa che può offrire propri benefit alle dipendenti) la maggior parte delle imprese è di piccole e medie dimensioni. «Per queste si presenta una grande opportunità di modernizzazione: con questo tipo di congedo (tutto post partum) e anche con il lavoro agile, che può essere adottato da imprese di qualsiasi dimensione e consente alla madre di lavorare da casa o da qualsiasi luogo nel periodo in cui non vi è il divieto di prestare la propria attività lavorativa, si offre la possibilità di evitare che la maternità sia vissuta come una cesura rispetto al proprio lavoro, con lunghi tempi di ripresa» commenta l’esperto della fondazione Studi Consulenti del Lavoro. «La circolare sancisce nero su bianco l’ampliamento delle possibilità di gestire il periodo del congedo di maternità obbligatorio, ma di fatto anche prima, se una donna voleva prolungare il periodo di lavoro pre-parto, poteva farlo ricorrendo ad apposite certificazioni, ad esempio in caso di buone condizioni di salute o posto di lavoro particolarmente vicino a casa. L’unico rischio è che potrebbe aprirsi una rincorsa pericolosa a chi lavora di più, magari con l’intento di mostrare di essere particolarmente brava davanti al datore di lavoro» osserva Barbara Orlandi. «In ogni caso, l’attenzione si sposta dalla donna al bambino (garantendone la salute), di fatto sminuendo il periodo della maternità, che invece va vissuto come una fase importante della vita, come sottolineato dallo spirito della legislazione italiana in materia, una delle più antiche in Europa» spiega l’esperta, che ricorda come «le norme si ispirano al testo sulla tutela delle puerpere del 1902, molto evoluto in tema di rispetto delle donne». La vera sfida è ora proprio conciliare tutele, diritti e cambiamenti socio-familiari.

Riproduzione riservata