Le donne temono di perdere il lavoro

Le preoccupazioni delle donne di fronte alla pesante crisi economica che si configura sono fondate. Perché i colpi violenti al sistema (e la crisi sanitaria scatenata dal Covid-19 è uno di questi) si fanno sentire sul mercato del lavoro. Ancor di più sulle fasce deboli. E in Italia le donne sono ancora deboli sul fronte occupazione.

Sono a rischio i rapporti di lavoro “leggeri”

Secondo il Centro studi di Confindustria il Pil italiano (la ricchezza prodotta nel Paese) potrebbe calare del 6% nel 2020. Un tonfo vertiginoso. L’occupazione dovrebbe scendere del 2,5% complessivamente. «Impossibile oggi quantificare con precisione quali categorie di lavoratori soffriranno di più e quanto soffriranno» ci spiega la professoressa Paola Profeta, docente dell’Università Bocconi di Milano ed esperta di “economia di genere”. «Ma di certo le donne rappresentano una parte fragile del mercato del lavoro». Secondo un recente report Eurostat, Italia e Grecia sono ultime in classifica in Europa proprio considerando la quantità di donne in età attiva che lavorano. «Nel nostro Paese il tasso di occupazione femminile è intorno al 50%, tra i più bassi in Europa e inferiore a quello degli uomini, che è intorno al 67%. Al Sud il dato delle donne è al 33%, significa che solo una su tre lavora. Uno shock negativo come questo renderà difficile trovare lavoro, ovviamente, ma amplifica il vero elemento di debolezza: le donne hanno spesso formule di lavoro precarie o più fragili contrattualmente». Sempre secondo Eurostat, un terzo delle donne lavoratrici ha osservato un orario part-time nel 2018 (30%), quasi 4 volte il tasso degli uomini (8%). «Part time, a tempo determinato, con salari più bassi rispetto a quelli maschili (è il “gap retributivo di genere”). Queste forme di debolezza si accentuano in tempi di crisi: contratti che saltano o che non vengono rinnovati, con interi settori in difficoltà occupazionale».

Sono a rischio i settori che più risentono del distanziamento sociale

Già, i settori. Altro punto dolente che pare giustificare la preoccupazione di molte donne verso l’ipotesi di perdita del lavoro. «Nella grande crisi del 2008, nata ed evolutasi in ambito finanziario, le donne sono state colpite relativamente», spiega Profeta. «I dati ci dicono che il tasso di occupazione femminile si è “solo” fermato in quella occasione, senza precipitare. È avvenuto perché le donne sono più presenti nel settore dei servizi, meno attaccati rispetto all’industria o alla finanza. Le lavoratrici hanno risentito meno, oggi invece rischiano di più perché sono più impiegate nei settori colpiti: i consumi fuoricasa e i negozi, la comunicazione, la cultura, gli eventi». Tutti ambiti che subiscono di molto le misure di distanziamento sociale necessarie durante la crisi sanitaria. E che verosimilmente ripartiranno dopo l’industria manifatturiera, durante il lento percorso di ritorno alla normalità in cui tutti speriamo. «Per contro – ma non possiamo sapere se basterà – la componente femminile è forte negli impieghi in ambito sanitario. Infermieri, operatori, anche medici: oggi ci sono più laureate che laureati in Medicina, e ci sarà potenzialmente più richiesta».

Ci vorrebbe un cambio di mentalità

Tutto nero, il panorama? «Non voglio dire questo, e, anzi, individuo una opportunità. Il problema centrale nel nostro Paese resta la divisione culturalmente marcata tra uomini e donne. Lui lavora, lei è più orientata a colmare tutte le altre esigenze. Parlo di famiglia, di carenze di asili e strutture, ma anche di dover scontare le preferenze delle imprese nelle scelte di carriera. Un ritardo culturale che resiste, anche di fronte a buoni livelli sul fronte dell’istruzione superiore, con più laureate che laureati. Ecco, uno shock come questo potrebbe essere l’occasione per un ripensamento, per cambiare un po’ questi stereotipi. Per trovare un nuovo equilibrio, insomma. Chissà che da questa forzatura non nasca un cambiamento di lungo periodo: l’idea è che in questi momenti di rottura, di discontinuità, ci siano dei movimenti e delle nuove consapevolezze che non si riescono a ottenere in condizioni di normalità».

«Me lo auguro davvero», risponde la dottoressa Consuelo Casula, psicoterapeuta ed esperta di psicologia del lavoro. «Viviamo in un contesto patriarcale, nonostante anni di femminismo le mamme educano maschi e femmine in modo diverso, inconsciamente. La riverenza nei confronti del maschio, della leadership, del potere anche economico è ancora lì, la svolta non c’è ancora stata. Sto generalizzando, naturalmente, ma la donna non ha imparato a riconoscere la sua potenzialità, i suoi talenti latenti, la sua autoefficacia. Fa cose meravigliose, ottiene grandi risultati e fa passare tutto come normalità assoluta. Non riconosce il suo merito, quello dei risultati che ottiene e dei fatti che compie. Non si fa valere, non pretende».

Una “inazione” legata anche al contesto lavorativo. «Si chiama sindrome dell’impostore, è stata identificata in persone eccellenti, competenti e capaci, e le porta a pensare di non essere mai sufficientemente all’altezza. È accertato come sia più femminile che maschile: le donne hanno questo senso di inadeguatezza. Uscire da questa sindrome significa riconoscere le proprie capacità, non solo i limiti. Essere più assertive: chiedere, esporsi, fare proposte, mostrarsi indispensabili. Chiedersi: che cosa tu concedi agli altri? Perché sei tu che dai agli altri l’occasione di esercitare potere su di te». Ora viene il tempo della paura, nello specifico quella di perdere il lavoro. «Lo sforzo da fare», consiglia la psicologa, «è sostituire la paura, che inibisce e congela, con il dubbio. “Perderò il lavoro? Sulla base di cosa lo dico? E perché proprio io, che valgo tanto?” Significa fare un esame di realtà anticipatoria, invece di cavalcare una certezza. La seconda emozione da usare è la curiosità verso le altre strade: “che cosa ho fatto fino ad ora e cosa posso cambiare per ottenere un risultato diverso?”».

Mettere a fuoco competenze alternative per reagire alla paura

Certo, stiamo parlando della ricerca di forze interiori per contrastare il timore di perdere il posto di lavoro. Se succede davvero, se il posto salta, bisogna mettere in campo altre energie. «Dobbiamo pensare a quale è la cosa più piccola e concreta che possiamo mettere in pista subito. Il recupero di alcuni hobby, la creatività e le attività manuali che magari abbiamo snobbato. Cucina inclusa». Diventare subito imprenditrici, nel senso di inventarsi piccoli lavori, non di costruire una attività remunerativa di punto in bianco. «Anche questo piccolo impegno contribuisce a sostituire la paura, ed è un rimedio che fa compagnia e fa restare in condizione di proattività, mentre si studia il futuro. Sembra banale, invece è importantissimo». Per quanto possibile, la ricerca di una serenità in questa condizione deve passare anche da un patto col partner. Una sorta di accordo di non belligeranza, di tregua, laddove ci sia tensione. «In clausura e con il lavoro perso non vanno coltivati rancore e astio; vanno, invece, evitate le escalation ed estratte dal cilindro gentilezza e virtù».

La rivoluzione al tavolo della cucina

VEDI ANCHE

La rivoluzione al tavolo della cucina

Riproduzione riservata