Lockdown: serve prepararsi non ribellarsi

Davvero il lockdown è la soluzione giusta alla pandemia? Dove le curve non sono ancora eccessive, la densità demografica bassa, la capacità ricettiva ospedaliera buona, non c’è alcun bisogno. In caso contrario sì, oggi è necessario. Ma dev'essere programmato e spiegato in modo chiaro

Shock sanitario e shock economico: sono queste le due forze che ci tengono in scacco, sotto la pressione enorme del coronavirus. E che sottopongono tutti i Paesi, compresa l’Italia, a una trazione violenta: da una parte la tutela della salute, dall’altra dell’economia, su cui le nostre società si fondano. In mezzo c’è il nostro mondo che rischia di spezzarsi, insieme alla nostra psiche. «Possiamo criticare, certo, è giunto il momento della rabbia, dopo quello dello smarrimento. Ma rischia di restare solo uno sfogo impotente, una nevrotica soddisfazione a cui, nell’evoluzione di grandi crisi come questa, spesso segue una fisiologica depressione. Degli individui e delle società». Ci aiuta a capire di più la situazione che stiamo vivendo noi tutti in balìa di queste forze, il professor Aldo Giannuli, politologo, storico e saggista, docente di Storia del mondo contemporaneo all’Universotà Statale di Milano e direttore del Centro Studi Osservatorio Globalizzazione. «La rabbia è la naturale conseguenza di un corto circuito di informazioni che ci dà la sensazione di un Paese che vive alla giornata, inseguendo l’emergenza più che governandola, e di noi vittime di decisioni – come il lockdown – calate dall’alto, a breve distanza, mai definitive». Davvero il lockdown è la soluzione giusta alla pandemia? 

Lockdown brevi, frequenti ma programmati

Ci spiega questa complessità Pierluigi Fagan, autore del libro Verso un mondo multipolare ed esperto – appunto – di complessità (di cui esiste perfino un Festival, che lo vede tra gli organizzatori). «La fotografia dell’Italia di oggi ci dice che queste due forze, cioè la crisi della sanità e il rischio di una tempesta economica, dopo una momentanea pausa estiva sono tornate a premere sulle nostre esistenze. E continueranno a farlo almeno fino al prossimo maggio, quando beneficeremo ancora una volta di migliori condizioni ambientali che pare abbiano effettivi positivi sulla rete dei contagi. Sono sette mesi, da novembre a maggio. Nel frattempo, dobbiamo convivere con i lockdown, brevi e locali, ma non nazionali. Lockdown che dovrebbero essere programmati e comunicati con anticipo dal Governo, per poter essere accettati e condivisi con fiducia da tutti. In Germania si sta pensando per l’immediato futuro di procedere proprio così». Il lockdown andrebbe trasmesso in modo chiaro, non allarmistico, con una gestione dell’informazione centrale, uniforme e non frazionata. «L’unico dato che ci interessa sono gli 11.500 ricoverati in ospedale – prosegue Fagan. In Italia ci sono 130mila letti, e se ogni settimana i ricoveri aumentano di 50mila unità, fra un mese si arriverà a 250mila. Questo devono sapere e capire le persone. L’obiettivo dev’essere il contenimento dei contagi, ma va condiviso e spiegato chiaramente. Dove le curve non sono ancora eccessive, la densità demografica media o bassa, la capacità ricettiva ospedaliera ancora capiente, non c’è alcun bisogno di chiudere la gente in casa. Dove però una o due o tutte e tre le variabili sono ribelli, 15 giorni di interruzione della rete dei contagi è l’unica possibilità realistica». In questo modo, congelando i contatti per un periodo breve, si abbassa la circolazione del virus. «Il virus non si distrugge ma si può controllare. Con i lockdown brevi si ridurrebbe l’afflusso agli ospedali, così tutta la macchina della Sanità potrebbe reggere. Occorre “sdoganare” l’argomento: se ne parla tanto, ma troppo e male. Per arginare il panico che sta affollando i pronto soccorso, basterebbe spiegare che il coronavirus non è la peste nera: i numeri sono due-tre volte l’influenza, solo che la percentuale di persone che va in ospedale è molto maggiore».

Anche la Germania opta per i lockdown

Anche gli altri Paesi stanno prendendo decisioni simili. «La Germania sta ragionando in tal senso quando né per dimensione epidemica, né per incapacità ricettiva e gestionale sta a nostri livelli». Possibile insomma che anche un Paese del genere, per di più con una popolazione più giovane della nostra, segua la stessa strada? Sì, perché la pandemia è un evento straordinario. «Nessun sistema sanitario, in nessun Paese del mondo, è in grado di reggere l’impatto del contagio e il pericolo di una pandemia. Non sarebbe sostenibile per nessun governo allestire un numero di posti letto in terapia intensiva 100 volte superiore a quelli necessari in condizioni normali. È uno stress inimmaginabile per qualsiasi sistema sanitario»: questo il quadro dipinto dal professor Aldo Giannuli, che sottolinea come gli Stati Uniti, il Paese più ricco e tecnologico del mondo, sia in testa ai contagi con 8 milioni di positivi e 300mila morti. «Il lockdown mirato, come la mascherina, non è la soluzione, ma un placebo che però dobbiamo mandar giù». 

L’Italia paga un prezzo tutto suo

Se è vero che la pandemia impatta violentemente a livello mondiale e tutti faticano ad arginarla, d’altra parte noi raccogliamo oggi il risultato del fatto che la Sanità è diventato un pasto per il profitto delle multinazionali, come spiega il professor Giannuli: «Il tasso dei contagi è direttamente proporzionale al tasso di privatizzazione degli ospedali. Infatti il numero più alto dei positivi è in Lombardia, Stati Uniti, Gran Bretagna. La nostra regione paga il prezzo altissimo della tendenza a ospedalizzare, che ha distrutto la rete territoriale. In Veneto, per esempio, dove si è proceduto in modo diverso, questa rete ha retto: infatti i contagi sono molto inferiori a quelli della Lombardia, che rappresenta da sola il 38 per cento dei casi nazionali. Senza questa fetta della torta, l’Italia sarebbe tra i Paesi meno colpiti».

L’immunità di gregge non è la soluzione

I lockdown oggi sono necessari perché non si è agito prima, denuncia il professor Giannuli. Un prima che guarda anche all’immediato, non solo agli errori del passato. «Si dovevano fare lockdown mirati già a metà settembre, così si sarebbe arrivati oggi sul filo del rasoio e magari non avremmo rischiato la chiusura totale di Natale, che può rivelarsi un disastro per l’economia». Forse scongiurando il lockdown natalizio, si potrebbe pensare a quell’idea dell’immunità di gregge che all’inizio della pandemia sembrava ipotizzabile. Ma i dati non ci supportano. Dice Fagan: «Si stima che oggi saranno al massimo 2,5 milioni i già contagiati, ma per attivare i benefici dell’immunità di gregge ne occorrono circa 36 milioni. Se siamo arrivati a 2,5 da marzo 2020, ci vorrebbe troppo tempo per raggiungere quel tetto». Ci arriveremo, ma in modo naturale, senza porcelo come obiettivo per uscire dalla crisi. «In più, se oggi arriviamo a 10mila ricoverati con questi numeri, raggiungere i 36 milioni significherebbe la bancarotta ospedaliera prima e dei cimiteri poi. Quanto alla “protezione delle fasce a rischio”, ricordo che in Italia tale fascia conterebbe poco meno di un terzo della popolazione, cioè 20 milioni di persone da chiudere non si sa dove, dargli da mangiare tre volte al giorno e portargli medicine o cibo, ma chi-e-come non si sa».

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Insomma, dopo i lockdown d’emergenza, non resterebbe che il vaccino, a cui i vari governi si stanno affidando, pure il nostro in modo molto esplicito: il progresso della scienza che riflette il gigantismo dell’uomo del Duemila, pronto a domare la natura e a vincere ogni malattia. Ma non è proprio così. «A quanto ci è dato capire, non interverrà operativamente in maniera sensibile nel breve periodo» commenta il professor Giannuli. «Se anche avessimo la formula, va prodotto in miliardi di dosi. Poi vanno considerate la lotta all’accaparramento, la distribuzione con il rischio di banditismo, quindi la somministrazione. Tempi lunghi non compatibili con una scomparsa a breve del virus»

Assumere medici e puntare sulla terapia

Che fare? Noi siamo al centro degli eventi, ma alla periferia delle decisioni. Mancano sicuramente molte informazioni ma una parte della nostra mente ci spinge comunque a cercare una risposta alla fatidica domanda. «La mia personale» dice Fagan «è che forse dovremmo provare a ragionare su due punti, con umiltà, modestia e condiviso interesse a difendere il bene comune. Quanto al problema sanitario, l’unica cosa da fare concretamente è tenere a bada la curva sotto aumento esponenziale, quindi con lockdown circoscritti, con l’assunzione di medici e infermieri e con la spinta sulle terapie. Per esempio, non si è più lavorato sul plasma autoimmune, eppure anche le terapie possono indebolire il virus. Quanto al costo economico dei lockdown, deve essere ammortizzato e bisogna lavorare molto su questo». E qui il dibattito si perde nelle voci – più o meno urlate – degli economisti, tra Mes, Recovery Fund, emissione di moneta parallela, defiscalizzazione. Ma questa è un’altra storia.

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