Didattica a distanza e insegnanti: innovatori contro tradizionalisti

Come si pongono gli insegnanti di fronte ai cambiamenti imposti dalla scuola a distanza? C'è chi vuole cavalcare il cambiamento e chi cerca di salvare l'insegnamento tradizionale. Un'opinione

La propensione italiana a schierarsi in tifoserie contrapposte come se vivessimo un perenne e pervasivo derby politico-sociale ha trovato terreno fertile anche nella scuola del Coronavirus. Anzi nella scuola della Didattica a Distanza (DaD il suo nuovo acronimo).

La didattica a distanza è ancora un problema irrisolto

Partiti a fine febbraio e organizzandoci con ciò che non sapevamo fare (tenere ostinatamente aperto da dietro un pc un dialogo educativo di qualche spessore), abbiamo per prima cosa dovuto affrontare il problema di arrivare a coinvolgere tutti. A distanza sì quindi, ma cercando di essere inclusivi. Missione praticamente impossibile, perché se il quasi 100% degli studenti di un liceo del centro di Milano vive in famiglie che hanno connessione, device multipli e  perfino disponibilità e motivazione verso le novità in epoca di emergenza, il discorso cambia – e molto – quando si parla di aree di disagio sociale, di sacche di povertà educativa, di bambini della primaria (come si si affronta quotidianamente un computer senza un adulto accanto che faccia anche homeschooling?) di istruzione in carcere (sì, c’è anche quella), di quei ragazzi scolasticamente fragilissimi che selezionare non ha quasi mai senso, e soprattutto di disabili, i grandi esclusi dall’armata entusiasta e un po’ sconclusionata della DaD.

Quindi il problema inclusione è ben lungi dall’essere risolto e in prospettiva – se è vero che a settembre torneremo scaglionati, distanziati, metà a scuola metà a casa – alla fase 2 della scuola sarà bene pensare per tempo, cioè da oggi stesso.

Bisognerebbe finalmente valutare le competenze 

Ed eccoci così al problema che spacca la scuola e forse la erodeva dalle fondamenta anche prima dell’attacco frontale del Covid. Da una parte “i competentisti”: abbiamo una grande occasione per testare sul campo la valutazione delle competenze, del “saper fare” trasversale, condiviso tra tutte le discipline, tenuto insieme dal collante delle competenze di cittadinanza che mai come ora sono importanti, perché dalle macerie della pandemia dovranno per forza uscire i cittadini di domani, una classe dirigente degna di questo nome, in un mondo – si spera – più attrezzato di fronte ai disastri e più rispettoso del pianeta.

I competentisti partono dal dato di fatto: i ragazzi italiani sono già promossi e quindi bisogna renderli ancora più responsabili. Studiate lo stesso, per il piacere di farlo, perché avete una libertà probabilmente unica e irripetibile, non lavorate per il voto, la media, la competizione, studiate perché adesso potete tirare fuori il meglio inesplorato di voi. I competentisti di solito abbandonano la lezione frontale, percorrono strade nuove per dialogare dal monitor con la sua freddezza e tutti i suoi magagne, rovesciano le classi, propongono lavori di gruppo a distanza solo apparentemente improbabili, spingono l’acceleratore sui compiti di realtà, sulla lettura del quotidiano, sulla scrittura creativa.

E soprattutto optano per una valutazione formativa: non quella meramente giudicante, ma una valutazione che non sottrae da una supposta perfezione (zero errori = 10, un errore = 9), che valorizza i progressi, che stimola l’autocorrezione, che premia la risposta positiva all’interazione di quest’azione didattica che si costruisce giorno per giorno. Una valutazione capace di guardare il processo educativo nella sua interezza e non tiene lo sguardo fisso sul solo esito finale.

Dall’altra parte c’è chi ritiene che i ragazzi non possano permettersi di rinunciare ai programmi, veicolati in forme nuove certo ma sempre inscindibili dai contenuti delle materie. L’insegnante restio ai cambiamenti indotti dallo tsunami interroga, dà voti, fa verifiche scritte e orali, semplicemente perché “è giusto”, meritocratico, compete alla professionalità docente, perché il rischio della valorizzazione è quello di allevare una generazione viziata (qualcuno la immagina persino “narcisista”). Insomma, l’aoristo al liceo sarebbe imprescindibile sempre, mentre l’allenamento al confronto critico rimarrebbe una skill implicita in tutto il resto della programmazione e verrà da sé.

Sullo sfondo ci sono loro, i ragazzi. Reclusi, non in guerra ma neanche in vacanza, non si ribellano al vuoto normativo in cui le regole non esistono quasi più finché decreti e ordinanze continueranno ad arrivare centellinati.

L’unica certezza è il “tutti promossi ma senza 6 politico” con un generico impegno a riallinearsi a settembre, magari i più zoppicanti in classe da subito così non si rientra assembrati.

Nel frattempo moltissimi studiano anche più di prima, c’è chi si alza con l’ansia del power point da inviare entro sera, con l’appuntamento quotidiano dei voti da controllare sul registro online, saltellando come funamboli da Zoom a Skype, da Whatsapp a Youtube, ogni tanto un transito veloce dalla chat di classe su Telegram.

Per tutti un nuovo mantra: “Ridateci la scuola di prima”. E non solo per ritrovare il compagno di banco con cui vivere gli anni più belli.

Cara scuola, come stai? Noi male. E ci manchi

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