Ragazza allo specchio

Indulgenza: e se la rivolgessimo a noi stesse?

Spesso, troppo spesso, siamo i nostri giudici più severi. Per senso del dovere, paura di deludere gli altri, difficoltà ad accettare gli errori. Ma liberarci da questo peso è possibile. Iniziando a perdonarci

Basterebbe poco per essere felici: piccoli piaceri come un pranzo con un’amica, un massaggio, la libertà di rientrare a casa a piedi dopo il lavoro, buttando un occhio alle vetrine senza badare all’orologio. Eppure questi piccoli piaceri non riusciamo a concederceli se – come ha rivelato il nostro sondaggio – ciò che desideriamo di più, soprattutto da noi stesse, è la capacità di prendere le cose con più leggerezza. Una sorta di autoindulgenza, di gentilezza verso il nostro io, che ogni tanto zittisca quel Signor No che è dentro ognuna di noi e non ci permette di uscire dalla linea retta del senso del dovere.

«Il regalarci delle gratificazioni è percepito come un atteggiamento egoistico, opposto all’immagine di persone ligie che ci hanno inculcato» spiega Paola Mamone, psicoterapeuta ed esperta di mindfulness, co-fondatrice della Società Italiana di Psicologia della Salute. Ma subito aggiunge che mettere a tacere questo giudice inflessibile si può: «Praticando la self compassion, cioè la capacità di prenderci cura di noi nei momenti di difficoltà: è un caposaldo della salute mentale».

È un’abitudine femminile quella di puntarci il dito contro? «Appartiene in generale alla nostra società. Anche gli uomini lo fanno, ma in misura minore, perché questo atteggiamento nasce da un imprinting culturale. Molte ricerche mostrano differenze di genere nel modo in cui i bambini vengono criticati: i maschi sono ripresi per ciò che fanno, le femmine per ciò che sono. Così finiscono per considerare gli errori non come episodi da lasciarsi alle spalle, ma come ferite alla propria autostima, che poi è difficile rimarginare».

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Con quali conseguenze? «Siamo talmente abituate a questo meccanismo che alla fine ci facciamo il callo. E dimentichiamo che, pur non essendo fragili, siamo comunque esseri delicati e perciò dobbiamo “maneggiarci’” con cura, come faremmo con un vaso di cristallo. Quando tutto va bene, questo significa essere gentili con noi stesse: per esempio, rispettare e possibilmente accondiscendere i nostri desideri».

E quando qualcosa non va? «Nei momenti di difficoltà tendiamo a diventare le nostre peggiori nemiche: ci addossiamo la colpa della nostra sofferenza, giudicandoci in modo eccessivamente severo. Invece dobbiamo praticare l’autocompassione, cioè un atteggiamento benevolo verso noi stesse, orientato al perdono e all’accettazione della sofferenza».

Da dove si comincia? «Si deve prendere consapevolezza dei nostri stati d’animo, che sono in continuo cambiamento. Bisogna imparare a “stare” nel momento, per capire che cosa proviamo nel “qui e ora”. L’aderenza al presente ci aiuta a ritrovare leggerezza, prendendo le distanze dal rimuginio mentale, dal pensiero invasivo rivolto al passato che quasi sempre porta con sé una sentenza su noi stesse. Quando prendiamo coscienza di stati d’animo negativi, come la vergogna o il senso di disfatta per qualcosa che è andato storto, dobbiamo accettarli come parte inevitabile della vita. Fa male conviverci, ma l’alternativa è peggiore».

Qual è questa alternativa peggiore? «Ogni volta che proviamo a sfuggire a una realtà che ci provoca dolore, finiamo per caricarci di una sofferenza aggiuntiva. Tentiamo di anestetizzare i nostri sentimenti con attività che ci stordiscono, come il super lavoro, o con dipendenze varie, dal cibo al fumo. Ma così non facciamo altro che alzare la soglia della nostra sensibilità, mettendo un filtro agli stimoli: allontaniamo l’angoscia ma, insieme a essa, anche la gioia di vivere o la gratitudine».


«Quando commettiamo un errore tendiamo a identificarci con esso e diciamo: “Sono sbagliata”. Dovremmo abituarci a dire: “Ho sbagliato”. In questo modo ci diamo il potere di rimediare»


L’abitudine a criticarci non nasce anche dalla voglia di essere perfette? «Sì. Tendiamo a modelli irraggiungibili: vogliamo essere in forma, apparire efficienti, sempre pronte a intervenire se qualcuno ha bisogno. Chiediamoci: “Da dove nasce questa spinta?”. Nasce dall’illusione che se ci sforziamo di essere come gli altri ci vogliono, ci conquisteremo il loro amore. Ma è un bluff, perché non possiamo sapere con certezza in che modo le persone ci desiderino. E in ogni caso è impossibile essere diversi da ciò che siamo».

Il paradosso è che ammiriamo chi confessa le sue debolezze. «È vero: siamo più indulgenti con gli altri che con noi stessi. Se qualcuno racconta di avere commesso un errore, subito ci sentiamo solidali con lui. Se un altro rivela le sue pene d’amore, applaudiamo al coraggio di mettersi a nudo. È come se osservassimo il comportamento umano con due lenti diverse, per cui la vulnerabilità è un valore se applicata agli altri e una sconfitta se riguarda noi. Quando è il nostro turno di rivelare chi siamo veramente, rimane difficile esporci al giudizio altrui e alla consapevolezza di essere deboli».

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Ci dà un buon motivo per farlo? «Accettare la nostra vulnerabilità significa scendere a patti con l’idea che è impossibile prevedere tutto quello che ci riserva il domani: a nessuno piace pensarlo, ma il fallimento è una possibilità. Raggiunta questa consapevolezza, possiamo giocarci il futuro senza riserve, perché sappiamo che non dipende solo da noi. E possiamo sviluppare una relazione più spontanea con la nostra persona, meno ancorata a ideali irraggiungibili. Tutto ciò ci fa ritrovare entusiasmo, creatività e gioia».

È compassione vera questo atteggiamento più benevolo nei confronti degli altri? «No, in realtà è un succedaneo: cerchiamo di dare agli altri quella cura che non riusciamo a concedere a noi stesse, nella speranza che qualcosa di buono ci torni indietro. Ma non funziona così».

I sensi di colpa sono sempre negativi? «Servono nella misura in cui ci spingono ad accettare la responsabilità dell’accaduto, che è il primo passo per andare oltre. La cosa da ripeterci è: “Non volevo, ma ho commesso un errore”. Non dobbiamo autoassolverci, sia chiaro, ma perdonarci. Significa abbandonare la critica generalizzata per una più mirata: “Non sono io che sono sbagliata: ho fatto una cosa sbagliata”. In questo modo ci riconosciamo il potere di rimediare».

La mancanza di autoindulgenza si manifesta anche nel sottrarre tempo a noi per dedicarlo agli altri. Come ne usciamo? «Dobbiamo esercitare il diritto a essere chi siamo realmente, ponendo dei limiti che sono sacrosanti. Perché non sappiamo tirarci indietro? Perché se lo facciamo, subito dopo ci sentiamo egoisti. La soluzione allora è dirci: “Sì, sono anche egoista, ma non solo”. Quella parolina, “anche”, aiuta molto, perché ammorbidisce il giudizio che diamo a noi stesse, facendoci stare subito meglio».


L’esperta: Paola Mamone

Paola Mamone è una psicologa, psicoterapeuta, specialista in Psicologia Clinica e dottore di Ricerca in Psicologia Cognitiva. Nella sua carriera ha unito il percorso scientifico alla meditazione, grazie all’incontro con il maestro zen Thich Nhat Hanh, e alla mindfulness. Nel 2016 è co-fondatrice di Interessere – Mindfulness in azione per l’aspirazione (www.interessere.it). È una delle maggiori esperte al mondo sul tema della compassione, che è al centro della Conferenza Internazionale Mindfulness e Self Compassion in programma il 27 e 28 novembre (www.symposiacongressi.com/mindfulness2021).

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