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WhatsApp e gli insulti al capo: cosa si può scrivere?

Una sentenza della Cassazione rigetta la richiesta di licenziamento di un dipendente che insultava su WhatsApp il datore di lavoro. La differenza la fa il contesto: cioè il tipo di chat, quante e quali persone partecipano. Lo stesso vale sui social, se gruppo chiuso o aperto. Ecco i casi e come regolarsi

Si può parlare male del capo su WhatsApp? Secondo l’ultima sentenza della Cassazione, che si è pronunciata sull’ennesimo caso di questo tipo, sì. O almeno “nì”: i supremi giudici, infatti, hanno respinto il ricorso di una società di vigilanza privata che aveva licenziato un dipendente per aver espresso giudizi negativi sui “capi” in una conversazione su WhatsApp con una ex dipendente. «Attenzione, però: il contesto conta molto. Nel caso specifico si è trattato di una chat tra sole due persone, non in un gruppo. In ogni caso ci sono orientamenti anche differenti, ad esempio da parte del Tar, il tribunale amministrativo» avverte l’avvocato Marisa Marraffino, esperta di diritto informatico.
Ma allora cosa è lecito scrivere e cosa no?

Il nuovo caso: niente licenziamento per gli insulti su WhatsApp

L’ultimo caso in ordine di tempo arriva dal Friuli Venezia Giulia e risale al 2017, ma si è chiuso solo ora con la sentenza della Cassazione. Un dipendente di una società di vigilanza privata aveva insultato il presidente e gli amministratori delegati chattando con ex collega su WhatsApp. Il datore di lavoro, però, lo aveva scoperto perché di quella conversazione era rimasta traccia nel computer aziendale. «Questo è un primo dettaglio non da poco, perché conta il modo in cui la persona offesa scopre i contenuti della chat. Va ricordato che con il Jobs Act il datore di lavoro può controllare se il dipendente usa correttamente gli strumenti messi a sua disposizione – spiega Marraffino – In questo caso non ci si può appellare alla privacy».  

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Niente licenziamento perché il contesto era extralavorativo

Il licenziamento, nel caso friulano, era stato considerato illegittimo sia in primo grado che in appello, perché per i giudici la conversazione non aveva «alcun rilievo disciplinare». Ad alleggerire la posizione del lavoratore era anche stato il fatto che i suoi giudizi erano stati espressi a una ex collega, quindi al di fuori di uno stretto contesto lavorativo: «Anche questo è un aspetto che sicuramente è stato preso in considerazione. Diversamente, se si fosse trattato di una chat tra colleghi tutti in servizio, le valutazioni avrebbero potuto essere diverse» spiega l’avvocato. Ad esempio, se si parla male del capo in una chat d’ufficio, è possibile che si fomenti un clima non sereno sul posto di lavoro e «questo potrebbe diventare un’aggravante, perché contribuisce a far venire meno il clima fiduciario che deve esserci tra datore di lavoro e dipendente, e che è previsto dall’articolo 2105 del Codice civile. Non a caso il Tar è più incline della Cassazione a sanzionare questo tipo di condotta, che è lesiva proprio del clima di fiducia che deve esserci nel rapporto di lavoro» spiega ancora Marraffino.

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Il precedente degli insulti al capo su Facebook

In passato i giudici si erano pronunciati su un caso analogo. Era il 2018 e il protagonista era stato un dipendente di una società di vigilanza privata che, in un gruppo Facebook con alcuni colleghi, aveva insultato il capo. Ma per i supremi giudici «I messaggi che circolano attraverso le nuove forme di comunicazione, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone, ma unicamente agli iscritti a un determinato gruppo, come appunto le chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa ed inviolabile». Per questo motivo la Cassazione aveva annullato il licenziamento del dipendente, che era anche sindacalista.

I gruppi WhatsApp sono privati?

Il principio a cui si erano appellati di giudici della Cassazione era proprio quello della “riservatezza” del gruppo WhatsApp, paragonabile a quello della mailing list della posta elettronica. In pratica la conversazione (compresi gli insulti) in quello spazio così delimitato era ritenuta «come privata e riservata» e gli insulti «uno sfogo in un ambiente ad accesso limitato», che «porta ad escludere qualsiasi intento o idonea modalità di diffusione denigratoria». In sostanza non c’erano gli estremi per la diffamazione.

La differenza tra gruppi e messaggi a singoli

Nel caso di 4 anni fa, però, i partecipanti alla chat erano molti, mentre la sentenza friulana riguarda una conversazione – via WhatsApp – tra due sole persone. Cosa cambia? «Intanto va detto che gli insulti in un gruppo, se il destinatario è assente, possono configurarsi come diffamazione. Se poi sono su una bacheca, come per Facebook, c’è anche l’aggravante del fatto che le offese possono essere viste da più persone» spiega ancora Marisa Marraffino. «Diciamo che non c’è un orientamento univoco: la stessa Cassazione tende a distinguere tra chat di gruppo o fra privati. Attenzione, però, a non sottovalutare neppure l’ingiuria, che dal 2016 non è più reato, ma continua a essere un illecito civile, quindi la persona offesa può chiedere un risarcimento in sede amministrativa. Viene riconosciuta quando la persona offesa è presente» spiega l’esperta.

Fin dove arriva la libertà di insultare in chat o sui social?

Ma esistono dei limiti, anche agli sfoghi, oltre i quali non è possibile andare, anche in privato? Pur ritenendo illegittimo il licenziamento anche la Suprema Corte ha sottolineato come lo “sparlare” del capo sia da evitare: è «una condotta in sé idonea a violare i doveri di correttezza e buona fede», hanno ribadito i giudici «Diciamo che magari il licenziamento è una misura eccessiva, ma questo non significa che l’azienda non possa ricorrere a sanzioni disciplinari intermedie. Insomma, io sarei molto prudente e ci penserei due volte prima di insultare qualcuno, specie il capo, in qualsiasi chat o social» conclude Marraffino.

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