Occhio a WhatsApp: adesso è una prova in tribunale

Dagli insulti contro il capo alle foto diffuse dai figli sui gruppi. Oggi i messaggi sulla celebre chat hanno valore probatorio. E possono essere usati contro di noi

Storia di WhatsApp. Prima arrivarono i lunghi “online” e la cultura del sospetto. E un nuovo tipo dubbio che non avevamo mai sperimentato: che ci fa (lui/lei) tutto quel tempo sulla chat? Sarà il gruppo delle amiche della palestra? Saranno i compagni di calcetto? Per nascondere a se stessi la verità: oltre i 25 minuti online, è amante. Poi, passati gli anni della gioventù, vennero i figli e le chat dei genitori. Era quasi meglio soffrire per amore. WhatsApp era Disneyland, fino a un paio d’anni fa. Poi si è messa di mezzo la legge, che arriva per ultima ma arriva sempre. Ed ecco le novità.

Puoi essere licenziato via messaggio

Oggi la chat di messaggi più usata al mondo è un mezzo riconosciuto anche nei tribunali: sentenza n. 301 del 12 agosto 2019, Tribunale di Gorizia: «Hanno valore probatorio i messaggi inviati via WhatsApp». Che vuol dire? Tutto ciò che scrivi a chiunque potrà essere usato contro di te in tribunale. Per esempio, è efficace a tutti gli effetti di legge il licenziamento. «Il recesso intimato a mezzo WhatsApp appare assolvere l’onere della forma scritta, allorché la parte ricorrente abbia con certezza imputato al datore di lavoro il documento informatico» si dice.

Puoi essere punito se denigri il tuo superiore

Bisogna dire addio anche al passatempo più amato dagli impiegati, cioè il gruppo segreto per gli sfoghi contro il capo. Ultimamente ai lavoratori va malissimo, è meglio tenere la frustrazione per sé: il nemico è ovunque, online. Il Tribunale di Milano (sent. del 30 maggio 2017) ha ritenuto giusta causa di licenziamento l’aver creato un gruppo su WhatsApp tra colleghi destinato agli insulti al capufficio. Il lavoratore «ha intenzionalmente posto in essere una condotta volta a denigrare il proprio responsabile di lavoro, da lui apostrofato con epiteti palesemente e pacificamente offensivi e denigratori, sicuramente idonei a sminuirne la credibilità e autorevolezza».

Puoi essere responsabile di un minore che fa sexting

Non finisce qui. Genitori tremate: Tribunale di Sulmona, 9 aprile 2018. In questa sentenza si parla dei nuovi divertimenti dei giovani. Per chi ancora non lo sapesse, gli adolescenti sono sempre più chiusi in camera. A fare cosa? Sexting, dicono tutte le statistiche. Senza sapere che una foto svestita di un’amica diffusa senza autorizzazione costa carissima a mamma e papà: «Qualora soggetti minorenni diffondano, utilizzando mezzi telematici (WhatsApp, Facebook, etc.), fotografie contenenti l’immagine nuda di una coetanea e siffatta diffusione avvenga senza il consenso dell’interessata, devono ritenersi civilmente responsabili, ex art. 2048, comma 1, c.c., i genitori degli autori della predetta diffusione, in quanto è ad essi ascrivibile la culpa in vigilando ed in educando».

Vuol dire risarcimento danni. Consiglio legale senza spese per i destinatari: ai gruppi partecipate solo con un emoticon sorridente. E state il più possibile offline.

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