C’è stato un momento in cui ho pensato: “Ma cosa abbiamo fatto?”.
Era pomeriggio inoltrato, la seconda tappa della nostra corsa nel deserto del Marocco, la più lunga, 23 chilometri di sabbia e rocce, era terminata da qualche ora, ma non avevamo ancora preso possesso delle tende. La tempesta di sabbia del giorno prima ne aveva rallentato il montaggio. E una nuova tempesta si stava sollevando, costringendoci tutte e 60 in un unico spazio comune. A turno, ci si alzava per una doccia (fredda) o un massaggio alle gambe (salvifico). La rete non funzionava, se non sulle dune, spazzate dal vento. Le ore scorrevano lente, costrette come eravamo a guardarci negli occhi, a misurare la nostra distanza. Il malumore montava.
“Ma cosa abbiamo fatto?”, mi domandavo. Cosa pensavamo avrebbe legato queste donne, che hanno dai 20 ai 70 anni, dalla giovane nerd dell’accademia di Apple all’operaia in fabbrica, dall’ingegnera alla pescivendola, dall’imprenditrice alla studentessa di medicina? Non certo la corsa, che ciascuna pratica con tempi e ragioni proprie. Come abbiamo potuto credere che, finito di correre o camminare, avessero ancora qualcosa da dirsi?
Giorno dopo giorno, però, quelle donne che mi erano parse stelle smarrite in un’immensa galassia, hanno iniziato a tessere un filo tra loro, a comporre una costellazione. Le storie di ciascuna rimbalzavano di bocca in bocca. Storie di imprese compiute, di progetti futuri, di figli piccoli lasciati a casa, di amori finiti o appena iniziati, di malattie vinte, di mariti che ti regalano il viaggio perché sanno che ce la puoi fare. Ciascuna, prima o poi, si trovava nella condizione di raccontare, nell’intimità della tenda, o pubblicamente, attorno al fuoco. E quel racconto non solo trovava orecchie attente ad ascoltarlo, ma nei giorni a venire risuonava infinite volte, in ogni accento d’Italia, diveniva argomento di discussione, di commento, di analisi.
Sulla jeep che ci portava fuori dal deserto, verso la città, l’asfalto, il traffico, ormai non mi chiedevo più cosa avessimo fatto. Mi domandavo come ci fosse venuto il miracolo di riunire 60 donne così eccezionali. Ma mi sbagliavo un’altra volta. Neppure l’eccezionalità era il filo che aveva stretto quelle donne in una comunità. Non c’era nulla che avessero in comune, se non ciò che accomuna ogni essere umano se ci prendiamo il tempo di conoscerlo. In questa avventura avevamo tutte a disposizione un enorme spazio vuoto, da riempire di storie e di vite altrui. Abbiamo riscoperto il gusto di ascoltare e raccontare. Di provare interesse per gli altri. Il regalo che ci hanno fatto il deserto e il nostro modo di attraversarlo è stato il tempo. Il tempo per conoscerci.
Foto Giulia Frigieri per Nikon