Il multitasking non esiste, parola di esperti di neuroscienze che nel tempo hanno sfatato una credenza diffusa, ritenendo che fosse “dote” delle donne, alle prese tutti i giorni con più attività e pensieri, dal lavoro alla famiglia, alla casa. «L’abitudine ad operare in tali condizioni è perfetta espressione di una società che ci chiede di essere sempre più prestanti, e su molteplici fronti contemporaneamente. In realtà, però, operare davvero in multitasking non è possibile, oltre ad essere estremamente oneroso per il nostro cervello. Dunque, anche se abbiamo l’impressione di svolgere allo stesso momento un compito A e un compito B, la realtà è che la nostra mente si sposta continuamente dal compito A al compito B, e viceversa, attraverso una funzione complessa che si chiama “spostamento rapido dell’attenzione selettiva” o shifting attentivo» spiega Anna Cantagallo, specialista in Neurologia e Medicina riabilitativa, presso il BrainCare Clinic Center. Insomma, il multitasking non è possibile né per le donne né per gli uomini.

Quanto ci costa lo “shifting attentivo”

Continuare a spostare l’attenzione da un compito all’altro comporta un notevole sforzo per la mente: «Lavorare sempre in questo modo è molto stressante per il nostro cervello e porta ad una riduzione dell’efficienza cognitiva. Il consiglio dunque è di fare un uso moderato del multitasking, solo quando questo è necessario; anche se può sembrare appagante, alla lunga l’affaticamento che può portare al nostro cervello è di gran lunga superiore ai vantaggi» spiega Cantagallo. Ma è possibile “allenarsi” e allenare il cervello al multitasking? 

«La letteratura dice il contrario: diversamente dallo sport, dove più ci si allena e migliori saranno le performance, le persone molto multitasking sono anche quelle con risultati peggiori. Il motivo è semplice: chi è poco abituato, cercherà di concentrarsi di più su tutte le azioni. È quello che accade a un guidatore che guarda lo smartphone, cosa che non dovrebbe mai fare: se è un’eccezione, si renderà conto del pericolo che corre e cercherà di stare più attento. Chi invece, purtroppo, lo fa abitualmente ha l’illusione di saper gestire la situazione e si concentra meno» spiega Marco Fasoli, assegnista di ricerca presso lo IUSS di Pavia, autore di Il benessere Digitale (Il Mulino) e curatore di digitaleresponsabile.it. Secondo diversi esperti, inoltre, l’effetto finale sarà un abbassamento delle performance. Il risultato è infatti un sovraccarico che appesantisce il cervello, generando “stress digitale”.

Lo stress digitale

«Il nostro cervello è oggi oberato di lavoro e sempre pronto a rispondere alle innumerevoli richieste che si presentano durante la giornata, alle quali si aggiungono quelle delle altre realtà aumentate (per esempio lo smartphone). Al giorno d’oggi, dunque, si utilizza il termine stress digitale per indicare il sovraccarico di informazioni al quale siamo sottoposti a causa di tutti gli strumenti che la rivoluzione tecnologica ci ha fornito: email, chat, chiamate, messaggi, social network. A tale sovraccarico si aggiunge la distraibilità e la perdita di tempo» spiega Cantagallo, che è anche Lecture presso le università di Padova, Torino e Napoli.

«La transizione digitale è recente e non abbiamo ancora imparato a gestire del tutto la tecnologia che da un lato ci ha semplificato la vita, rendendo tutto più veloce e smart, ma dall’altro ci ha reso “schiavi” perché non è pensata per il nostro benessere. Le aziende guadagnano con i nostri dati, quindi più gliene offriamo e più le soddisfiamo. Per agganciare la nostra attenzione, dunque, le app sfruttano l’effetto gratificante della ricompensa (come i “like”) o meccanismi che stimolano a usarle in continuo, come le notifiche» spiega Fasoli.

Cambiare atteggiamento

«L’errore di fondo è applicare alla comunicazione digitale gli schemi tipici di quella interpersonale: in un dialogo faccia-a-faccia se l’altro non mi guarda o non mi risponde subito, ci rimango male. Lo stesso accade se non ricevo una risposta immediata a un sms. lo interpreto come un segnale negativo senza considerare che è una comunicazione a distanza e possono esserci mille motivi per cui l’interlocutore non può rispondere subito. La conseguenza, però, è un doppio stress: il primo per la mancata risposta, il secondo perché noi per primi cerchiamo di rispondere immediatamente per non sfigurare» spiega l’esperto.

Stress digitale addio con la “Tecnica del pomodoro” e altri accorgimenti

Complici i “like” e l’effetto ricompensa (il senso di gratificazione che ne deriva, dimostrato dagli studiosi) molte aziende si sono focalizzate su sistemi in grado di tenere gli utenti sempre più collegati ai social o alle app. Ma l’effetto-dipendenza e lo stress digitale che ne deriva si può evitare o quantomeno ridurre con alcuni accorgimenti suggeriti da Marco Fasoli:

  • Detox digitale, sì o no? Le “diete” periodiche di disintossicazione dal web aiutano, ma non sono la panacea, quanto piuttosto il modo che la società contemporanea ha di trovare soluzioni efficaci ed estemporanee, ma non definitive. È come quando, dopo un mese di bagordi a tavola, si ricorre alle centrifughe.
  • Accorgersi del “problema”: il primo passo per cambiare atteggiamento è prendere consapevolezza dello stress che si vive, anche grazie a strumenti offerti dalla tecnologia. Per esempio, cambiare le impostazioni e togliere le spunte blu di WhatsApp è un modo per evitare di sentirsi sotto pressione in caso di mancata risposta immediata.
  • Via a suonerie e notifiche: lo stesso risultato si può ottenere silenziando e togliendo le notifiche visive che spesso ci costringono a interrompere le azioni principali.
  • Tecnica del pomodoro: è uno stratagemma utilizzato da molte aziende. Basta puntare un timer e darsi un tempo di lavoro, mediamente 25 minuti, per poi staccare per 5’. In questo modo aumenta la concentrazione per un periodo definito di tempo, riservando al momento di pausa lo spazio per i compiti secondari.
  • Le App “intelligenti” (come Forest): prendono spunto proprio dalla tecnica del pomodoro e “costringono” a ridurre le continue interruzioni dovute agli stimoli esterni. Nel caso di Forest (usata con successo con i nerd negli Usa) dopo aver piantato un albero virtuale, non si deve sbloccare il telefono per 25 minuti. Se lo si fa, la pianta muore. Questo serve a ridurre il numero di volte in cui si guarda il dispositivo. Altre App funzionano in modo simile, così come può essere utile controllare il resoconto giornaliero delle attività fornito da molti smartphone. Rendersi conto, magari, di aver dedicato 3 ore al giorno ai social o di aver sbloccato lo schermo per 110 volte in un solo giorno, aiuta a prendere coscienza e a modificare poi il proprio comportamento.
  • Il blocco a siti e App: in casi estremi si può ricorrere anche a programmi che bloccano direttamente l’accesso alle App o ai siti ritenuti fonte di distrazione, permettendo quindi di rimanere concentrati su un’attività alla volta per un certo periodo prestabilito dall’utente stesso.

È insomma la versione moderna del vecchio trucco di Ulisse con le sirene, con la differenza che oggi le sirene arrivano dalla “navigazione” su Internet.