Pillola abortiva a rischio?

Dopo la decisione dell’Umbria di ripristinare l'obbligo del ricovero ospedaliero di almeno tre giorni per le donne intenzionate a sottoporsi all’interruzione volontaria di gravidanza, si riaccende il dibattito sulla pillola Ru486 e la difficoltà di accesso alle procedure di aborto. La Toscana, però, va in direzione opposta

Lo scorso 10 giugno la giunta di centro-destra dell’Umbria, guidata dalla presidentessa Donatella Tesei, ha deciso di ripristinare l’obbligo di un ricovero ospedaliero di almeno tre giorni per le donne intenzionate a sottoporsi a un’interruzione di gravidanza attraverso la pillola Ru486. Secondo la Regione, la delibera è stata adottata per seguire le “Linee di indirizzo per le attività sanitarie nella Fase 3” dell’emergenza coronavirus e dispone «il superamento delle indicazioni previste dalla DGR 1417 del 4 dicembre 2018 “Interruzione volontaria di gravidanza con metodica farmacologica” relativamente all’opportunità di somministrare la RU486 in regime di ricovero in day hospital».

La nuova delibera ripristina perciò il ricovero ordinario per una procedura che, con le precedenti disposizioni, veniva somministrata in day hospital ma anche in ambulatorio, a casa o con il supporto della telemedicina. È subito scoppiata la polemica: intanto perché la direttiva sembra andare contro l’indicazione di affollare meno gli ospedali in virtù dell’emergenza Covid-19, quindi perché associazioni e attiviste la ritengono un grosso passo indietro nel libero accesso all’aborto garantito dalla legge 194, una legge che – come sappiamo – ha sempre avuto vita difficile nel nostro Paese. È stata subito creata una petizione per chiederne l’abrogazione, che ha già quasi raggiunto le 50.000 firme che si era prefissata, mentre domenica 21 giugno una manifestazione di protesta si è tenuta nel centro di Perugia.

Una decisione in controtendenza rispetto a quella presa dalla regione Toscana, che era stata anche la prima in Italia a introdurre l’aborto tramite Ru486, che il 29 giugno ha invece deciso di somministrare la pratica anche nei poliambulatori pubblici adeguatamente attrezzati e funzionalmente collegati agli ospedali.

Come funziona l’aborto farmacologico

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’aborto farmacologico è una procedura sicura che può essere utilizzata fino alle prime nove settimane di gravidanza. A oggi non esistono dati scientifici che ne attestino la pericolosità sulle pazienti e la stessa Tesei non ha saputo fornirli quando le sono stati chiesti per corroborare la decisione della sua giunta. Stando all’ultima relazione del Ministero della Salute del 2017 sulla legge 194, in Italia solo il 17,8% degli aborti è avvenuto con metodo farmacologico e nel 96,9% dei casi di interruzione di gravidanza con RU486 non è stata rilevata nessuna complicazione immediata né al controllo post dimissioni, nel 92,9% dei casi. Secondo il Ministero, i dati sono «simili a quanto rilevato in altri Paesi e a quelli riportati in letteratura e sembrano confermare la sicurezza di questo metodo». Il metodo più praticato di aborto farmacologico è quello che prevede la somministrazione il primo giorno del farmaco preparatorio Mifepristone, quindi del farmaco che provoca l’esplusione, il prostaglandine, il terzo giorno.

Nonostante l’Oms preveda che sia sicuro accedervi nelle prime nove settimane di gravidanza, in Italia il limite è di sette. È stata introdotta per la prima volta nel 2009, mentre in Francia era disponibile dal 1988 e dal 1990 nel Regno Unito. Poiché la procedura si conclude in una sola giornata, può essere fatta in regime di day hospital, in ambulatorio o in casa con il supporto del medico, tutte modalità che – nel periodo di lockdown dovuto al coronavirus – sono state potenziate in Paesi come la Francia e il Regno Unito. E nel resto d’Europa e del mondo il ricorso a questa procedura è ben più alto che in Italia, come riporta Claudia Torrisi su Valigia Blu: «la percentuale del ricorso al farmacologico è del 97% in Finlandia, del 75% in Svizzera e del 66% in Francia. In questi Paesi, come nel resto d’Europa, inoltre, il limite per accedere al farmacologico è nove settimane di gestazione, così come stabilito dall’Oms. Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration l’ha recentemente esteso a dieci».

La difficoltà di accesso alla pillola Ru486

L’accesso all’aborto in Italia è sempre stato difficoltoso e a più di quarant’anni dalla legge 194 la situazione è ancora molto problematica in moltissime regioni, con una percentuale spropositata di obiettori di coscienza tra dottori e farmacisti. Nonostante molte donne preferirebbero il metodo farmacologico per evitare l’intervento chirurgico, che nel 52,8% dei casi viene svolto in anestesia generale e solo nel 3% in anestesia locale, la pillola Ru486 rimane ancora perlopiù inaccessibile, come ricorda Eleonora Cirant su Il Fatto Quotidiano: «Il ricorso all’aborto farmacologico varia molto da una Regione all’altra, sia per quanto riguarda il numero di interventi che per il numero di strutture che lo effettuano. Valori percentuali più elevati si osservano nell’Italia settentrionale, in particolare in Piemonte (44,1% di tutte le IVG nel 2018), Liguria (38,0%), Emilia Romagna (36,9%), Toscana (29,3%) e Puglia (27,8%), come riportato nella Relazione. In altre Regioni le basse percentuali sono il segnale degli ostacoli ancora presenti: come in Lombardia (8,7%), Veneto (12,1%), Campania (1,2%), Sardegna (6,3%). E in Umbria, appunto, dove solo 3 ospedali su 11 offrono questo metodo, per l’1,2% del totale di interruzioni volontarie di gravidanza, e dove il tempo di attesa per le interruzioni volontarie di gravidanza chirurgiche supera le tre settimane nel 23,7% dei casi».

Il dibattito solleva almeno due altre questioni fondamentali. Una è quella degli interventi clandestini, che sarebbero più di 10mila ogni anno e che il Ministero definisce «un fenomeno di bassa entità», ma che in realtà è estremamente preoccupante. Sara Martelli, coordinatrice della campagna “Aborto al sicuro” ha detto al Fatto Quotidiano a proposito degli aborti “fai da te”: «Da una forbice del 10-12% nel 2012 si passa ad una stima fra l’11 e il 14% nel 2017. Se si trattasse di qualunque altra questione medica, l’allarme sarebbe elevatissimo. Immaginate che il Ministero della Salute uscisse con delle stime che dicono che il 15% delle appendicectomie viene fatto clandestinamente in strutture non autorizzate o addirittura in casa da persone senza alcuna qualifica. Invece si tratta di aborto e abbiamo talmente metabolizzato le conseguenze dello stigma che il Ministero della salute trova basso il ricorso alla pratica fuori dalle norme sanitarie». Strettamente legata a questi numeri è la percentuale altissima di obiettori di coscienza, che in alcune regioni, come il Molise, sfiora l’80%: per troppe donne, in Italia, abortire è ancora difficilissimo.

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