rifiuti termovalorizzatori

Termovalorizzatori o inceneritori: dannosi per la salute?

Che differenza c’è tra i due tipi di impianti, come funzionano, servono davvero o inquinano? Fanno male alla salute? Ecco le risposte, proprio mentre è di nuovo emergenza rifiuti

Inceneritori sì o no? Che differenza c’è con i termovalorizzatori? Quando e per cosa si usano, ma soprattutto: è vero che inquinano e producono sostanze nocive? In questi giorni di (nuova) emergenza rifiuti si torna a parlare di queste strutture, che rappresentano ad oggi il principale sistema di smaltimento di rifiuti non riciclabili, in alternativa (o insieme) alle discariche. In Italia ci sono 41 impianti, dei quali la maggior parte è di nuova generazione, dunque in grado di produrre energia dalla combustione di rifiuti, riutilizzata sotto forma di elettricità o calore per riscaldare altre strutture, come ospedali o abitazioni. Si trovano, però, quasi tutti in Lombardia.

Inceneritori e termovalorizzatori

Entrambi gli impianti servono a bruciare rifiuti ed esattamente quelli solidi urbani (come piccoli imballaggi, carta non riciclabile perché sporca, piatti e bicchieri di plastica anch’essi non destinati a seconda vita) e gli “speciali”, frutto di attività produttive per lo più industriali. La principale differenza tra inceneritori e termovalorizzatori consiste nel fatto che i secondi sono in grado di sfruttare il calore prodotto dalla combustione, ad esempio per distribuire acqua calda anche alle abitazioni civili, contribuendo al riscaldamento domestico (teleriscaldamento), come nel caso di Brescia, la città più teleriscaldata d’Italia. La possibilità di utilizzare energia elettrica prodotta mediante la combustione dei rifiuti ha anche permesso al comune lombardo di essere quello con le bollette per la luce e la Tari più basse del Paese (in media del 35% in meno).
I termovalorizzatori, infatti, hanno più radiatori nei quali portare a ebollizione l’acqua, dispongono di turbine a vapore e alternatori che producono energia.

La polemica sull’inquinamento

Se da un lato i termovalorizzatori sono fondamentali per lo smaltimento di rifiuti che altrimenti finirebbero in discarica, dall’altra gli oppositori sottolineano i possibili effetti negativi sulla salute e l’ambiente. La legge prevede che la temperatura di combustione debba essere superiore agli 850 gradi, per evitare la formazione di diossine. Al di sotto di questo valore, infatti, si attivano bruciatori a metano. Studi del Cnr, il Consiglio nazionale della ricerca, e Ispra hanno mostrato come l’inquinamento prodotto da questi impianti è sostanzialmente inesistente. Per gestire gli scarti di combustione, i termovalorizzatori moderni hanno mediamente 4 livelli di filtraggio per i fumi e sistemi di trattamento e sistemi di riciclo delle ceneri molto sofisticati. Le analisi sulla qualità dell’aria e di tipo epidemiologico sulle popolazioni che si trovano nei pressi di impianti di moderna generazione, come nel nord Europa, non hanno evidenziato un aumento di patologie nelle zone dove sorgono questi termovalorizzatori. Trattandosi di strutture che funzionano a combustione, però, contribuiscono all’effetto serra, al pari degli impianti di riscaldamento o dei veicoli circolanti su strada, perché producono anidride carbonica.

Servono davvero?

«Serve davvero un impianto di incenerimento in ogni provincia? Secondo noi no. Questo non vuole dire opporsi a qualsiasi termovalorizzatore» spiega Barbara Meggetto, responsabile di Legambiente Lombardia. «Le realtà sul territorio sono molto differenti tra loro: in acuni casi, come in Lombardia, la dotazione è sufficiente, in altre no. Servirebbero più impianti, ma questa non è comunque la soluzione definitiva: negli anni ’90, in piena emergenza rifiuti nel milanese, si è messo in moto un meccanismo per cui si sono costruiti impianti di incenerimento, ma si è anche potenziata la raccolta differenziata. È su questo punto che bisogna agire, anche perché per realizzare un termovalorizzatore occorrono anni: nel frattempo? Per questo dobbiamo prima di tutto potenziare la differenziata, poi capire esattamente quanti impianti occorrono per arrivare a chiudere le discariche. In Lombardia i rifiuti che vi finiscono sono meno dell’1%» aggiunge Meggetto.

«No rifiuti, sì impianti. Economia circolare per la sostenibilità» sostiene FISE-Assoambiente, che riunisce le imprese che operano nel campo dei servizi ambientali: «Oggi l’attenzione è focalizzata tutta sui termovalorizzatori, ma il discorso è più ampio. L’Europa ci ha indicato alcuni obiettivi importanti: il 65% di raccolta differenziata e non oltre il 10% dei rifiuti da conferire in discarica. Avanza dunque una quota che quindi è logico pensare sia la termovalorizzare. Noi però riteniamo che i passaggi fondamentali siano tre: per prima cosa ridurre i rifiuti; in secondo luogo riciclarli, riportandoli nel mercato sotto forma di materie prime secondarie; in terzo luogo, cercare di portare il meno possibile in discarica, ricorrendo all’incenerimento per la quota residuale di rifiuti che non possono essere destinati a nuova vita, sfruttando l’energia che se ne può ricavare. I termovalorizzatori, dunque, servono ma devono essere parte di un sistema completo, una economia circolare» spiega il direttore della Federazione Imprese di Servizi-Assoambiente.

Come funzione all’estero?

In Europa si producono in media 480 chili di rifiuti all’anno a testa. L’Italia è in linea con quasi mezza tonnellata (495 chili) per ciascun abitante. Il record negativo spetta a Danimarca (770 kg), Svizzera e Norvegia (circa 700 kg). Secondo il recente rapporto Eurostat, a fare la differenza sono però le quote riciclate: in Germania, ad esempio, dove si producono in media 600 chili di rifiuti per abitante, la differenziata si attesta intorno al 75%, mentre il resto viene bruciato e in discarica finiscono appena 9 kg, a fronte dei 123 kg dell’Italia. Complessivamente in Europa si ricicla circa il 30% di carta, vetro e plastica, mentre il compostaggio della frazione umida è pari al 17%. Sono 125 milioni, però, le tonnellate che in Europa finiscono agli inceneritori e in discarica, dove però la quantità di rifiuti che viene conferita è calata negli ultimi 23 anni da 145 milioni a 59 milioni di tonnellate.

Inceneritori in Europa

Sono oltre 350 gli impianti di termovalorizzazione o incenerimento che si trovano in 18 Paesi europei. Il report Ispra (2015) indica la Danimarca come Stato col maggior quantitativo di rifiuti bruciati (415 kg/abitante per anno), seguita da Paesi Bassi (245 kg), Finlandia (239 kg), Svezia (229 kg), Lussemburgo (213 kg), Austria (212 kg) e Germania (196 kg). L’Italia brucia appena 99 chili pro capite all’anno, meno anche rispetto a Paesi come l’Estonia (185 kg), il Belgio (181 kg), la Francia (174 kg) e il Regno Unito (152 kg).
«Il paradosso è che noi portiamo all’estero una quota di rifiuti da bruciare, perché da noi non è possibile farlo. Sono Paesi definiti “virtuosi”, come Olanda, Svezia o Germania, dove esistono inceneritori e cosiddette ‘miniere di sale’, ex cave oggi riempite di rifiuti per evitare che collassino e che dunque si sono trasformate in discariche» spiega Elisabetta Perrotta, direttore di FISE-Assoambiente.

Dove sono gli inceneritori?

Oltre al caso di Brescia (con 880 mila tonnellate di rifiuti all’anno smaltiti), che rappresenta un’eccellenza italiana nel settore ed è nata dopo l’emergenza rifiuti degli anni ’90, per via delle discariche piene, la maggior parte degli impianti che bruciano rifiuti in Italia si trova al Nord: secondo il Rapporto rifiuti urbani 2017 dell’Ispra, dei 41 complessivi ben 14 sono in Lombardia. A seguire ci sono l’Emilia Romagna (con 8 strutture) e la Toscana (5 sulle complessive 9 del centro Italia), seguite da Veneto (2), Piemonte, Trentino Alto Adige e Fiuli Venezia Giulia, con uno per ciascuna regione. I più importanti sono quelli di Torino, Milano, Brescia e Parma. Sono solo 7 invece gli inceneritori al Sud: solo in Sardegna sono due, ma l’unico impianto di dimensioni adeguate è quello ad Acerra (Napoli), dove si bruciano 600mila tonnellate all’anno di rifiuti. Sicilia e Abruzzo ne sono completamente sprovviste.

I cosiddetti “inceneritori senza recupero energetico” sono pochi: i principali sono a Marghera (Venezia), disattivato di recente, San Vittore (Frosinone), Colleferro (Roma), Gioia Tauro (Reggio Calabria), Capoterra (Cagliari), Melfi (Potenza), Statte (Taranto). Sono strutture dalle dimensioni ridotte (sotto le 100 mila tonnellate di rifiuti smaltiti all’anno), più costoste e destinate alla dimissione, come nei casi di Vercelli, Ospedaletto (Pisa), Tolentino (Macerata), Statte (Taranto) o Macomer (Nuoro).

Effetto B.A.N.A.N.A (e NIMBY) ed esempi virtuosi

L’emergenza rifiuti in Italia deve fare i conti con l’effetto NIMBY, acronimo inglese di Not In My Back Yard (“non nel mio giardino”). A questo di recente se ne è aggiunto un altro: il cosiddetto B.A.N.A.N.A, ossia Built Absolutely Nothing Anywhere Near Anything: “non costruire assolutamente nulla da nessuna parte vicino a niente”. Un paradosso, se si pensa che esistono esempi virtuosi di impianti realizzati nel centro di capitali europee, come la Danimarca. Qui, dove la quantità di rifiuti smaltiti tramite combustione è elevata, lo scorso anno è stato inaugurato un termovalorizzatore nel centro della capitale, Copenhaghen, e sul suo tetto a dicembre sarà aperta una pista da sci. Costato 670 milioni di dollari, l’impianto di Amager Bakke – CopenHill ha sostituito il vecchio inceneritore: brucia circa 400mila tonnellate di rifiuti all’anno e secondo le autorità danesi emette solo vapore acqueo, perché i filtri trattengono polveri e fumi. Permette di produrre elettricità, destinata a 62.500 abitazioni, e acqua calda a 160.000 unità.

Le materie prime secondarie

«Per fare questo occorre però anche creare un mercato delle cosiddette “materie prime seconde”: sono quelle realizzate con il trattamento dei rifiuti, lavorati e trasformati in materiali riutilizzabili, che possono fare concorrenza a quelli primari. È il caso della carta riciclata o delle bottiglie in Pet riciclato, o ancora di alcuni materiali ricavati dal riciclo dei cellulari: contengono materiali anche preziosi che, se riutilizzati, ci permettono di ridurre l’importazione di materie prime dall’estero, in modo da essere più autosufficienti, e di ridurre i costi» conclude Perrotta.

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