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Violenza sessuale di gruppo: è partecipe anche chi incita o approva

Il caso è lo stupro da parte di un branco di un giovane con disabilità. La Cassazione ha confermato l'accusa di violenza sessuale di gruppo per una giovane donna che, pur non partecipando direttamente, commentava il video che si stava girando. E che è finito in rete

Il caso della violenza sessuale di gruppo: il video

Un video girava in rete. Nel video, la violenza sessuale contro un giovane disabile ad opera di dieci ragazzi, tra cui due minorenni e una donna di 23 anni. La giovane, pur non partecipando direttamente al gravissimo abuso, nel video della violenza ripreso con il cellulare e diffuso in rete dice chiaramente: «Troppo forte raga, quell’altro gli sta pure facendo il video».

Violenza sessuale di gruppo anche per chi è nel branco

 Il fatto è accaduto in Calabria.  Ora la Cassazione conferma l’accusa di violenza sessuale di gruppo anche nei confronti della giovane donna, cioè di chi, pur non partecipando direttamente, incita e approva il video degli abusi. In pratica, di chi fa parte del branco senza mettere in atto direttamente la violenza. La ragazza, quindi, secondo la Cassazione deve rispondere di violenza sessuale di gruppo, e non di concorso in violenza sessuale di gruppo.   

Una sentenza molto significativa che comincia a tracciare una strada ben definita verso la tutela delle vittime, perché si ritiene responsabile non solo chi commette concretamente la violenza, ma anche chi ha un ruolo apparentemente marginale. Un messaggio chiaro per chi, nascosto nel branco, può pensare di essere meno responsabile di una violenza perché non è lei – o lui – a commetterla nel concreto. L’avvocatessa Stefania Crespi, penalista di Milano, ci spiega l’importanza di questa sentenza. «La 23enne, affermando “Troppo forte raga, quell’altro gli sta pure facendo il video”, secondo la Suprema Corte è responsabile tanto quanto chi ha realizzato nel concreto la violenza. Secondo la Cassazione l’indagata non si è dissociata dalla condotta realizzata dagli altri, “condotta che era ancora in corso posto che in quel momento si stava registrando il video”, “ma ha rafforzato nei confronti di costui, l’intento di usare violenza alla persona offesa peraltro portatore di deficit cognitivo”. Secondo la Cassazione “l’indagata è chiamata a rispondere non di concorso in violenza sessuale di gruppo, ma di violenza sessuale di gruppo”».  

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La differenza con il concorso in violenza sessuale

Quando si parla di concorso in violenza sessuale? «Si ha concorso (morale) nel reato di violenza sessuale se si rafforza o si istiga il proposito criminoso altrui purché il soggetto non si trovi nel luogo e nel momento della violenza» spiega l’avvocatessa. Il fattore discriminante quindi è l’assenza della persona. Prosegue l’esperta: «Nella violenza sessuale di gruppo invece più persone forniscono un contributo materiale, oppure rafforzano il proposito dell’autore (contributo morale), a condizione che il soggetto sia presente al momento della violenza, così fortificando l’intento criminoso di chi sta perpetrando violenza». Proprio come accaduto per il caso del video in Calabria.

Quando si parla di violenza sessuale di gruppo

La violenza sessuale di gruppo è un delitto a sé, diverso dalla violenza sessuale. «È disciplinato dall’art. 609 octies c.p., quindi non è una circostanza aggravante del delitto di violenza sessuale. Consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale: vi deve essere una costrizione, cioè le persone devono usare violenza, minaccia oppure abusare della propria autorità o, ancora, delle condizioni di inferiorità psichica o fisica della vittima. Perché vi sia violenza sessuale di gruppo – secondo la Cassazione – basta anche il contributo morale, cioè rafforzare il proposito di chi sta usando violenza, purché questa persona sia presente, come appunto nel caso accaduto in Calabria».   

Il legale dell’accusata: «Adesione morale e non istigazione»

Contro l’ipotesi dell’accusa di stupro di gruppo, il legale della giovane, l’avvocato Antonio Larussa, aveva presentato ricorso alla Suprema Corte sostenendo che il comportamento della sua assistita non era “di istigazione”, ma al massimo di “una mera adesione morale a un progetto criminoso altrui, come tale penalmente irrilevante”.  Invece secondo i Giudici si tratta di violenza sessuale di gruppo: «Quindi per i Giudici non occorre che ciascun partecipante agisca concretamente per essere responsabile di violenza sessuale di gruppo» spiega l’avvocatessa. «Anche il “contributo morale” viene punito allo stesso modo. E in questo caso la giovane, pronunciando quella frase, non solo non si è dissociata dalla condotta realizzata da uno del ‘branco (cioè chi stava girando il video), ma ha rafforzato nei confronti di costui, l’intento di usare violenza alla persona offesa».   

Anche chi fa il palo risponde di violenza sessuale di gruppo

Questa sentenza ricalca un altro caso, quello di chi fa il palo, responsabile anch’esso di violenza sessuale di gruppo (sentenza 5321/22): «La Cassazione confermò la condanna a quattro anni di reclusione a un uomo come compartecipe a una violenza perché l’aveva favorita, controllando che nessuno vedesse o intervenisse. E infatti la presenza del palo aveva favorito l’abuso sessuale contro una signora» prosegue l’avvocatessa Crespi. «La Suprema Corte affermò che era “sufficiente la loro presenza nel luogo e nel momento in cui detti atti vengono compiuti, anche da uno solo dei compartecipi, atteso che la determinazione di quest’ultimo viene rafforzata dalla consapevolezza della presenza del gruppo”. In pratica, chi fa il palo rende il gruppo più sicuro e disinvolto, quindi ne rafforza il comportamento. E per questo deve rispondere allo stesso modo di chi opera concretamente la violenza, quindi di violenza sessuale di gruppo. E, oggi, questo vale anche che chi riprende o approva i video, oppure incita o assiste all’atto sessuale da parte di più persone riunite.

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