Licenziata per video intimo in chat: ma è lei la vittima

Il caso del 2018 (ora a processo) della maestra d'asilo torinese licenziata per il video intimo in chat è ancora più drammatico anche perché le protagoniste sono donne: la mamma da cui partì la condivisione nella chat dei genitori, e la direttrice che ricattò e licenziò la ragazza

Succede due anni fa in provincia di Torino. Una giovane donna viene licenziata perché il fidanzato condivide nella chat del calcetto un video intimo. E questo video arriva al datore di lavoro. Ma l’aspetto forse più drammatico è che le protagoniste di tutto ciò siano donne: a ricattarla prima, e licenziarla poi, è la direttrice dell’asilo in cui la giovane lavorava. Una volta in possesso del materiale, la minaccia di licenziamento se non avesse dato le dimissioni e di diffusione del video per impedirle di trovare un altro lavoro. Ma la catena degli “inoltri” parte da un’altra donna: è la moglie di un amico del giro del calcetto a mandare alla direttrice il video intimo, dopo aver a sua volta minacciato la ragazza di diffonderlo se non se ne fosse andata, e di averlo fatto di fronte al rifiuto di lei, condividendolo nella chat dei genitori.

La grave complicità delle donne

A quel punto lo sdegno è grande, ma invece di dirigersi verso chi per primo aveva diffuso questo video – cioè il fidanzato – si orienta verso di lei. E piuttosto che fermare quello che oggi è un reato (si chiama revenge porn, per chi non lo sapesse ancora), le donne se ne sono rivelate complici, come sottolinea Paola Di Nicola, giudice del Tribunale di Roma, una vita impegnata nella lotta contro gli stereotipi (sua la famosa sentenza sul caso delle “baby squillo” dei Parioli, ispiratore della serie Netflix Baby). «Il caso dimostra, al di là dei profili penali, che i reati di violenza di genere si fondano su un contesto culturale, socialmente condiviso, per cui la libertà delle donne deve essere punita distruggendone l’identità sociale e professionale». 

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Esiste anche lo stupro virtuale

Non è la prima volta che una donna viene licenziata per una chat con contenuti intimi. È successo a Brescia, da cui il video di una donna è partito per fare il giro del mondo, quindi tornare indietro mistificato, con montaggi a contenuto pedofilo, in cui il suo volto però restava sempre riconoscibile. Lei ha perso il lavoro, oltre all’equilibrio della sua vita, e ha sporto denuncia. Ancora prima Tiziana Cantone si suicidò, ve lo ricordate? Dopo l’enorme impressione legata a quel caso, il ricatto che segue alla diffusione del materiale è diventato un reato. «Questo reato determina sofferenze psicologiche profondissime – commenta “la” giudice, come vuole essere definita – che, secondo gli studi, nel 47 per cento dei casi rischia di portare al suicidio insieme alla perdita del lavoro. Non è un caso che questa condotta venga definita stupro virtuale». 

La violenza del web non è meno grave

Quando si parla di violenza contro le donne non sempre entrano in campo percosse o danni fisici. La violenza ha molte forme e lo stupro virtuale è una di queste: forse perché viaggia sul web ci sembra meno grave, quindi meno efficace nei suoi effetti. Eppure parole e immagini possono anche essere più taglienti della violenza fisica, perché pesano come macigni, anche se volano leggeri su Internet. Abbiamo raggiunto l’avvocato che segue la vicenda di Torino, Domenico Fragapane: «Il processo è ora agli inizi perché la vicenda risale al 2018. I danni sono molto difficili da risarcire: si tratta di un pezzo di vita in un periodo molto bello in cui i sentimenti dovrebbero essere preservati, la fiducia difesa, i legami affettivi valorizzati. Invece tutto questo è stato vilipeso con violenza da persone senza scrupoli, in un contesto volgare e greve. Donne e uomini che non hanno avuto la capacità di capire. Ed è grave che vada spiegato come ci sia un privato da difendere, e come questo privato non legittimi in alcun caso ricatti di natura penale, come la minaccia di licenziamento».

Le donne vittime due volte

Anche semplicemente inoltrare dei messaggi in una chat è un reato: «Si tratta di illecito trattamento di dati personali» spiega l’avvocato. «È un reato penale il ricatto che ne segue: cioè condizionare la divulgazione a un certo comportamento. Nel caso del torinese i ricatti sono due: il genitore che minaccia di inoltrare alla direttrice del nido se la giovane non si fosse dimessa prima, e la direttrice stessa che, una volta ricevuto il materiale, minaccia di divulgarlo se la protagonista non si fosse licenziata di sua iniziativa». La giovane donna ha avuto coraggio rivendicando la sua posizione di vittima e rifiutando di licenziarsi. Possiamo solo immaginare come abbia vissuto dopo, in questi due anni passati in un contesto in cui le donne come lei finiscono per essere vittime al quadrato: perché una vittima non riconosciuta come tale, finisce per diventarlo due volte. 

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