Ragazza videocall cellulare

Piccolo galateo della videochiamata

Diciamoci la verità: dopo 7 mesi di smart working iniziamo a essere stanchi di riunioni via computer. E a dare segni di cedimento. Ma sopravvivere alla “Zoom fatigue” si può. Con qualche semplice regola di bon ton

La fonte migliore per raccontare il 2020 lavorativo è lo “Zoom Bingo”, un’immagine diventata virale nelle ultime settimane sul web che raccoglie le frasi ricorrenti in ogni riunione in videocall: «Mi sentite tutti?», «Aspettiamo 2 minuti e poi partiamo», «Riuscite a vedere il mio schermo?», «Chi sta lavando i piatti?» e la struggente «Stai parlando in muto…». La verità è che ci siamo tutti ritrovati smart worker nel giro di una notte. E mica eravamo preparati. In 8 milioni abbiamo dovuto capire al volo parole come Teams, Meet, Zoom.

Ci è pure piaciuto, all’inizio: ci conciavamo perfettamente, almeno nella metà superiore, sceglievamo con cura il nostro angolino, facevamo attenzione ai rumori di fondo. Poi, come capita a ogni migliore relazione, abbiamo un po’ sbracato, ognuno a suo modo. Sette mesi dopo possiamo definire i nostri colleghi in base ai loro tic da remoto: il timido che tiene spenta la camera, il ribelle in tuta, il narciso che fissa il quadratino con se stesso, il carrierista che picchia i tasti durante tutta la call (senza mettersi in muto, ovviamente). «Ci abbiamo messo decenni per abituarci al lavoro in ufficio» osserva Domenico De Masi, sociologo del lavoro e autore di Smart Working (Marsilio, in libreria dal 22 ottobre). «Logico che ci serva ancora del tempo per gestire questo nuovo tipo di interazioni».

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Galateo della videochiamata

Gli accorgimenti sono pochi, semplici, ma ancora da esplicitare. Per esempio, arrivare puntuali: aspettare di vedere qualcun altro nella stanza prima di connettersi non vale (tranquilli, lo facciamo tutti); non parlare mai sull’altro; mettersi in muto quando si ascolta; non distrarsi troppo; non dilungarsi in chiacchiere di circostanza prima della riunione.

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Qualcuno parla già di “Zoom fatigue”, l’affaticamento da continue videocall. Privati dei segnali non verbali delle conversazioni dal vivo (gesti, postura, sguardo), dobbiamo concentrarci solo sulle parole ascoltate dietro a uno schermo; ci sentiamo in dovere di “colmare” ogni secondo di silenzio; dobbiamo contemporaneamente controllare quello che succede dietro di noi (un figlio nell’altra stanza, per esempio); e, guardando costantemente la nostra faccia sullo schermo, attiviamo un meccanismo di autogiudizio inconscio. Sommate tutte queste performance per varie riunioni alla settimana e capirete il grado di stress a cui va incontro il nostro cervello.

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Torneremo a rivalutare il diritto alla disconnessione

«Nei prossimi mesi torneremo a rivalutare il diritto alla disconnessione» continua De Masi. Tradotto: dovremo staccare, almeno un po’, dalle iconcine di capi e colleghi. Senza temere che gli equilibri in azienda cambino per questo. I cattivi capi restano tali anche da remoto, anzi le frecciatine protette dallo schermo sono ancora più efficaci. I timidi invece prenderanno coraggio. «Tutte le ricerche dimostrano come le persone più introverse assumano un tono più sicuro al telefono o in videocall» conclude De Masi. La virtù (e la felicità), come sempre, starà nel mezzo, nelle forme di lavoro ibride già ipotizzate dagli esperti: lavoreremo un po’ in ufficio e un po’ a distanza. «Ce la faremoooo», come sempre. Pure parlando in muto.

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