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Signora Vallanzasca, come si fa ad amare un bandito?

Antonella D’Agostino ha conosciuto Renato negli anni Sessanta, a Milano. Erano ragazzini. Trent’anni dopo si sono sposati: «Lui era già in carcere, era un uomo cambiato». Ora il criminale che piaceva tanto alle donne è protagonista di un film di Michele Placido. E lei, che è stata consulente sul set, confessa: «Fa rabbia rivedere quello che è stato, perché non si può più tornare indietro»

Mentre parliamo, Antonella D’Agostino, 59 anni, compagna di Renato Vallanzasca dal 1996 e dal 2008 sua seconda moglie, è nella sede di una comunità di recupero per carcerati, ex tossicodipendenti e disabili, dove il marito lavora da qualche mese durante il giorno, per rientrare nel penitenziario di Bollate (Milano) la sera.

Moglie di un uomo condannato a quattro ergastoli e 260 anni di prigione per rapine, sequestri di persona, cinque omicidi. Le vicende di Vallanzasca, pericolo pubblico numero 1 negli anni Settanta, sono di nuovo sotto i riflettori perché il 6 settembre, alla Mostra del cinema di Venezia, verrà presentato fuori concorso il film Vallanzasca – Gli angeli del male, regista Michele Placido, interprete Kim Rossi Stuart. Antonella, che è stata consulente sul set, ha urgenza di parlare: «Vorrei fare una premessa. Io non voglio offendere la sensibilità dei parenti delle vittime: ogni volta che penso a quello che è successo mi manca il fiato. Le mie notti sono piene di incubi».

Adesso però suo marito è diventato protagonista di un film.
«Chi teme che il film, che ho anche aiutato a scrivere, possa trasformare Renato in un eroe, si tranquillizzi: Placido e Rossi Stuart si sono attenuti fedelmente alla storia, hanno fatto un lavoro eccellente e severo. A tratti Renato risulta anche peggio di come è stato».
Cosa ha provato rivivendo le vicende sue e di Renato sul set del film?
«Da un lato una grande commozione, dall’altro rabbia e frustrazione perché ormai quel che è fatto è fatto, e non si può più tornare indietro».
Forse se lo chiedono in tanti: come si fa a innamorarsi di un bandito?
«Il nostro anniversario è il 16 gennaio del 1995,quando al telefono mi ha chiamato amore: era in carcere da vent’anni, era una persona diversa. Si è riallacciato un legame che risale a tantissimo tempo fa, a quando eravamo bambini».
Ci racconti.
«Lui viveva dalla prima moglie del padre, al Giambellino, periferia di Milano: aveva commesso una cretinata e lo avevano dato in affidamento a questa specie di zia. Ci vedevamo ai giardinetti, lui proteggeva i più deboli, quelli con gli occhiali tiranneggiati da tutti, regalava le merendine a chi non le aveva. Allora io gli regalavo i miei formaggini Tigre: sentivo di doverlo proteggere».
E poi?
«Mi chiamava la sua sorellina e io, lui, il mio fratellino. Il Giambellino però era un posto brutto: magnaccia, prostitute. A 15 anni sono andata a lavorare in un salone di bellezza in via Montenapoleone. Così ho visto Renato sempre meno, solo il lunedì andavamo al cinema o a fare un giro in piazza del Duomo. Poi mi sono sposata».
E intanto Renato stava diventando un rapinatore, un assassino.
«Quando l’ho scoperto dalla tv, non potevo crederci. Io sapevo solo che faceva piccoli furti, roba da poco (la voce si incrina)».
Riesce ad andare avanti?
«Non voglio parlare di quel periodo terribile. Ho avuto anche dolorosissime disgrazie personali. Comunque ci siamo sempre tenuti in contatto scrivendoci».
Si è sentita tradita da lui?
«Per un po’ l’ho quasi odiato. Ma un fratello lo abbandoni? No, io sono una donna del Sud, certi legami non riesci a cancellarli. E poi non ero proprio convinta che avesse fatto tutto quello di cui l’hanno accusato. Non sono una che rifiuta la realtà, ma a me Renato ha sempre raccontato tutto. Ancora oggi sono certa che alcuni reati di cui è accusato non li abbia commessi. Ma dopo 40 anni di carcere, che senso ha dire di questo sono colpevole e di questo no?».
Come convive con quel passato?
«Quando ci viene da sorridere per un motivo qualunque, il primo pensiero è: che ridiamo a fare? La nostra tragedia non ha la parola fine».
E il vostro presente com’è?
«Renato ha 45 giorni di permesso l’anno e per il 2010 li abbiamo già consumati. Di giorno ci possiamo incontrare alla comunità.Renato ha 60 anni, due terzi li ha passati in cella. Soffre e ha una voglia enorme di riscatto. Si ammazza di lavoro, vorrebbe tanto recuperare il tempo perso».
Come commenta la fama di rubacuori di suo marito?
«Ma che cosa puoi combinare da una cella! Piuttosto sono sconcertata da certe donne: alcune ancora oggi gli fanno la posta, gli scrivono, gli telefonano. Non lo lasciano in pace, e io sono sbalordita».
Non le viene mai voglia di abbandonare tutto?
«No,Renato e io siamo l’aria l’uno per l’altra».

 

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