Houston e Dallas: perché negli Usa il razzismo è ancora così presente?

A Houston, in Texas, Stati Uniti, un uomo di colore, armato, è stato ucciso da due poliziotti (questi ultimi hanno dichiarato di essersi visti puntare addosso una pistola). Succede il 9 luglio. Due giorni prima, a Dallas, sempre Texas, un veterano dell’esercito (anche lui di colore) apre il fuoco e uccide cinque poliziotti bianchi. Accade durante una manifestazione di protesta contro l’omicidio di due afroamericani da parte di agenti in Louisiana e Minnesota. Un’ondata di indignazione che ha infiammato anche le piazze di New York, Atlanta, Philadelphia, San Francisco e Phoenix. Scontri e arresti, con episodi di violenza e feriti in Louisiana, Minnesota, Missouri e Georgia e Tennesee. Iniziative del movimento “Black lives matter” (traduzione: le vite dei neri ci riguardano). Che cosa sta succedendo negli Stati Uniti? Perché negli Usa il razzismo è ancora molto forte?

Un equilibrio precario

Bianchi contro neri e neri contro bianchi. Cinquanta anni fa, gli Stati Uniti erano la culla della segregazione razziale. I “colored” avevano posti riservati sui bus, bagni separati dai bianchi e scuole per conto proprio. Ci furono leader carismatici (Martin Luther King, Malcolm X), manifestazioni di massa, forme di disobbedienza civile portate avanti dalla popolazione afroamericana. Fu il successo di queste (pagato al prezzo altissimo di repressioni, pestaggi e di violenze subite dai neri) a chiudere il capitolo della segregazione razziale. E quindi della disparità. “Tutti gli uomini sono stati creati uguali”, recita la Dichiarazione d’Indipendenza Americana. Però si è dovuto attendere la pronuncia della Suprema Corte (e arriviamo al 1968) per stabilire che posti sui bus, bagni, scuole e locali per soli neri non dovessero esistere più.

«E da allora fino ai nostri giorni – ci spiega Umberto Mucci, fondatore di “Wetheitalians”, portale web e associazione che racconta i legami fra Italia e Usa – si è sempre vissuto in una sorta di equilibrio precario. Significa che fra afroamericani e bianchi c’erano sì delle tensioni, ma erano controllate. I pregiudizi da ambo le parti sono sempre esistiti. Serviva tempo. Decenni. 330 milioni di cittadini americani dovevano maturare da soli l’idea che gli Usa fossero un conglomerato di tante culture, lingue, razze diverse: una casa del mondo in convivenza pacifica. Poi c’è stata la svolta storica dell’elezione di Obama a presidente degli Stati Uniti: è stata una cosa eccezionale perché questa nazione ha detto al mondo ‘noi americani siamo pronti a rivoluzionare il problema razziale e a chiuderlo per sempre’. E’ stato un ciclone, in quell’equilibrio precario. Ma le risposte che ha dato il presidente e la sua amministrazione non sono state sufficienti».

L’occasione mancata

Commentando l’uccisione degli agenti a Dallas, il presidente Obama – che era in viaggio in Europa, ha accorciato le sue visite istituzionali, per rientrare prima a Washington DC – ha detto che «gli Stati Uniti non sono divisi» e che «gli americani di tutte le razze sono giustamente indignati dagli ingiustificabili attacchi alla polizia». «Appunto – chiosa Mucci – Obama non ha visto, in questi fatti, che la radice è sempre la questione razziale. Ha dato una interpretazione miope: il 12% dei poliziotti americani è di colore, il capo della polizia di Dallas è di colore. Non è possibile ridurre quanto accaduto a Dallas o a Houston come una questione di scontro fra polizia e afroamericani, perché la polizia è fatta anche da questi ultimi. Non ha voluto inquadrare il vero problema. E probabilmente lo ha fatto per un calcolo politico: tacitare il problema in vista delle elezioni di novembre».

Dove è più presente oggi, la questione razziale negli Usa?

Nell’estate del 2015, gli Usa vennero sconvolti da una strage a sfondo razziale. Un ventunenne bianco entrò in una Chiesa metodista di Charleston, South Carolina, e uccise 9 persone, tutte di colore, mentre partecipavano a una funzione religiosa. Il ragazzo, per sua stessa ammissione, uccise proprio per odio razziale. Il fatto scatenò anche un acceso dibattito politico, perché nella sua camera il ragazzo non aveva una bandiera stelle e strisce, ma teneva il vessillo sudista. La stessa bandiera che alcuni Stati del Sud degli Stati Uniti issavano nelle loro sedi istituzionali, a ricordo della storia. Il problema è che quel simbolo divide. Nelle sue bordature e in quella croce stellata a sfondo rosso, vi era quello per cui gli stati americani confederati combatterono fra il 1861 e il 1865: il mantenimento della schiavitù dei neri.

«Effettivamente – ci spiega Mucci – gli stati del sud, quelli che ricadono nella Bible o Sun Belt (la ‘fascia’ della Bibbia o del Sole) hanno una storia intrisa di violenza razziale, di sfruttamento e di segregazione. Lì ci possono essere più problemi di convivenza per ragioni passate: in Alabama o nel South Carolina è più probabile registrare queste tensioni a sfondo razziale. Però il fatto che questi fatti di sangue, oggi, capitino in Texas, nella ricca Dallas, ci deve far pensare che ormai queste problematiche possono verificarsi ovunque».

I conti con la storia

Insomma, gli Stati Uniti riusciranno a chiudere i conti con il loro passato burrascoso? «Gli Usa sono il faro della civiltà occidentale, quella “città sulla collina cui tutti avrebbero guardato” per usare un’espressione di John Winthrop, uno dei primi coloni americani. Gli Usa hanno una enorme responsabilità sulle spalle: hanno un passato burrascoso come tutti i paesi che hanno avuto un’accelerazione eccezionale della storia, passando da nazione di confine a superpotenza mondiale. Sono un paese complicato con mille identità e culture diverse, che si integrano. Ma saranno anche in grado di fare i conti col proprio passato e con i rigurgiti di quegli stessi atti deplorevoli di razzismo che vediamo oggi. Magari non risolveranno tutti i loro problemi ma sono il paese che ha gli strumenti, gli anticorpi per migliorare certi problemi. E’ il Paese meglio attrezzato, anche se in questo momento non sta pesando un momento particolarmente brillante».

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