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Obesità: se c’entrassero i PFAS?

Uno studio condotto negli Usa mostra un nesso tra l'esposizione a queste sostanze inquinanti, usate per rivestire molti oggetti comuni, e l'aumento di peso

Le conseguenze dell’esposizione ai PFAS sono note da tempo e finora l’attenzione era puntata soprattutto agli effetti a carico della tiroide e dell’apparato riproduttivo, soprattutto nelle donne. Ma un nuovo studio statunitense ha voluto indagare anche l’azione di queste sostanze chimiche nocive in relazione al metabolismo e in particolare al peso. Ciò che è emerso è il nesso tra gli PFAS e l’obesità, riscontrato dopo aver analizzato un campione esteso di donne in gravidanza e bambini, seguiti nell’arco di 20 anni.

Dove si trovano i PFAS

Inodori, incolori, ma difficilmente degradabili e soprattutto con la capacità di rimanere nell’organismo per lungo periodo i PFAS sono classificati come interferenti endocrini. Si stratta, infatti, di sostanze chimiche (la sigla sta per “perfluoroalchiliche”) dall’uso molteplice: sono in grado di rendere gli impermeabili all’acqua e ai grassi, dunque li si può trovare in alcuni tipi di carta da pizza, in utensili per la cucina, pentole, ma anche nei rivestimenti di giacche cerate o per smartphone.

PFAS: come interferiscono con l’organismo

Gli studi, però, ne hanno dimostrato la capacità di interferire con alcune funzioni dell’organismo, concorrendo ad alcune patologie come poli-abortività, basso peso alla nascita, nascite pre-termine, endometriosi, potenziali effetti sulla fertilità maschile e femminile, ipercolesterolemia e diabete, osteoporosi, patologie a carico della tirpoide, alterazioni cardio-e cerebro-vascolari, riduzione della risposta immunitaria e alterazioni nervose. Adesso uno studio, pubblicato su Environmental Health Perspectives e condotto da un gruppo di ricercatori della Brown University di Providence (Rhode Island, Usa), ha scoperto un’associazione tra l’esposizione ai PFAS in gravidanza e l’alterazione del peso.

Lo studio: gli effetti dei PFAS sul peso

Gli studiosi americani hanno analizzato un campione di «circa 1400 donne in gravidanza alle quali sono stati misurati i livelli plasmatici di PFAS: successivamente, nei bambini, dopo 2-5 anni dalla nascita, è stato calcolato il BMI, l’indice di massa corporea. Ciò che è emerso è un’associazione statisticamente significativa fra i livelli di PFAS riscontrati nelle madri e il rischio di obesità o di sovrappeso nei bambini, senza alcuna differenza fra i due sessi» spiega Giovanni Carlo Isaia, presidente dell’Accademia di medicina di Torino e professore di Geriatria all’università di Torino. «I dati ottenuti sono biologicamente plausibili in quanto precedenti studi hanno dimostrato che i PFAS sono in grado di attraversare facilmente la placenta e, una volta raggiunto l’organismo fetale, assomigliando strutturalmente ad un acido grasso libero, si lega a un recettore (PPAR) che induce produzione di tessuto adiposo. La conseguenza è un aumento della massa grassa – spiega Isaia, specialista in endocrinologia. – In secondo luogo queste sostanze possono determinare un incremento di massa grassa, riducendo la funzione tiroidea. Infine, l’esposizione durante la gravidanza ai PFAS si associa ad un’azione del DNA nei geni che regolano la omeostasi dei lipidi, cioè il loro equilibrio». Tutto ciò causa un’alterazione degli acidi grassi, che spiegherebbe la variazione del peso.

L’allarme sui PFAS in Lombardia e Veneto

Il risultato del nuovo studio, dunque, riaccende i riflettori sugli effetti dei PFAS, dopo precedenti allarmi che hanno riguardato anche l’Italia. Il primo è arrivato, fin dal 2017, dal Veneto, dove nel cosiddetto “triangolo rosso” tra Vicenza, Padova e Verona, si sono riscontrati livelli di contaminazione da PFAS molto preoccupanti, in particolare per la presenza di una ex azienda, oggi dismessa, che utilizzava queste sostanze chimiche. In Lombardia, invece, è stata Greenpeace Italia a denunciare livelli elevati di queste sostanze nell’acqua.

Cosa hanno evidenziato gli studi

Da qui la preoccupazione per gli effetti nocivi per la salute: «I PFAS sono chiamati “inquinanti eterni” in quanto una volta dispersi nell’ambiente si degradano in tempi lunghissimi. Possono perciò contaminare fonti d’acqua e coltivazioni entrando poi nella catena alimentare. Numerosi studi hanno evidenziato che possono provocare il diabete, danni alla tiroide, al fegato e al sistema immunitario, ma anche cancro ai reni e ai testicoli, ed effetti negativi sulla fertilità», ricorda Isaia. Purtroppo trovano massiccio impiego in molti prodotti di largo consumo, tra i quali capi di abbigliamento, imballaggi alimentari, persino cosmetici e lubrificanti. Quindi per contrastare l’inquinamento da PFAS è necessario metterli al bando per legge, individuando potenziali sostituti con sostanze che abbiano un minor impatto sull’ambiente e sulla salute», sottolinea l’esperto di endocrinologia.

Come ridurre i rischi

Se ad oggi limitarne l’uso appare difficile, esiste comunque la speranza di contenerne gli effetti dannosi, seppure in modo non massiccio. Per esempio, il professor Isaia ricorda che «L’Istituto Mario Negri ha sviluppato una piattaforma di modelli, chiamati VEGAHUB, che dà la possibilità di scegliere sostanze alternative ai PFAS e che è liberamente accessibile». «Ad oggi non sono ancora disponibili interventi terapeutici mirati e riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale. Ma il nostro gruppo di ricerca presso l’UOC di Andrologia e Medicina della Riproduzione dell’Azienda Ospedale Università di Padova ha identificato sperimentalmente possibili forme di intervento basandosi sulle dinamiche di bioaccumulo di queste sostanze nell’uomo», spiega Carlo Foresta, ordinario di Endocrinologia presso l’Università degli Studi di Padova, Direttore UOC Andrologia e medicina della riproduzione e membro Consiglio superiore di Sanità.

La speranza: l’azione del carbone attivo

«Da un’intuizione sperimentale ispirata all’attuale tecnologia di filtraggio delle acque, basata sull’utilizzo dei filtri ai carboni attivi, è stato individuato un corrispettivo terapeutico nel carbone attivo vegetale ad uso umano. – prosegue Foresta – Il carbone attivo vegetale è una sostanza naturale in grado di trattenere al suo interno molte molecole, e che trova già impiego nel trattamento di intossicazioni da farmaci e avvelenamenti alimentari, nonché per il meteorismo intestinale. La nostra ipotesi sperimentale è stata quindi quella di drenare a livello intestinale i PFAS, rendendoli eliminabili con le feci. Dando il carbone attivo a cicli di 15 giorni interrompiamo l’assorbimento e abbassare il tasso plasmatico». Lo studio «è già stato condiviso con l’Istituto Superiore di Sanità e rappresenta il primo esempio di un possibile intervento medico sul circolo enteroepatico per i PFAS che consente a queste sostanze di avere vita lunghissima nell’uomo», conclude l’esperto. 

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