Scuola: come far amare la lingua italiana

I genitori trasmettono ai figli la passione per la nostra lingua in un solo modo, semplicissimo: usandola in tutta la sua ricchezza. È il consiglio di Tullio De Mauro, ex Ministro della pubblica istruzione

In Inghilterra il settimanale Time lancia l’allarme: “Lutto per la morte del corsivo”. Si riferisce alla generazione Y di bambini delle scuole elementari e medie che non sanno usare la penna, soppiantata dalla tastiera del computer. Anche da noi la situazione è complessa. In un momento in cui si parla di introdurre l’insegnamento del dialetto, a scuola i piccoli hanno difficoltà con l’italiano. «Preoccupa la scarsa dimestichezza con la scrittura e la lettura» avverte Tullio De Mauro. «Ma un segreto per insegnare ai più piccoli ad amare la nostra lingua c’è. Ed è racchiuso in famiglia, nei primi anni di vita dei figli». Parte di qui l’intervista al famoso linguista che tutto il mondo ci invidia.

Professore, come si fa a trasmettere ai bambini l’amore per la lingua italiana?

«Basta un gerundio: usandola. In tutta la sua ricchezza ed estensione. Creando a casa e a scuola un ambiente dove gli adulti parlino con i bambini, li ascoltino, rispondano alle loro domande».

Da dove iniziare?

«Dalle abitudini da salvare per una buona educazione linguistica e affettiva. Come mangiare insieme almeno una volta al giorno e abituarsi a leggere ai bambini qualche pagina di storie. Per esempio la sera, accompagnandoli a dormire».

Che tipo di storie?

«Pinocchio, le favole di Rodari, di Andersen e dei fratelli Grimm. Mentre ai più grandi, sui 10 anni, consiglio “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carrol. Purtroppo, però, il 79 per cento delle famiglie italiane tiene in casa poco più che stradari e libri di ricette».

C’è un libro che, invece, non dovrebbe mai mancare in casa?

«Un buon dizionario. Mamme e papà non devono vergognarsi di ammettere davanti ai figli che non conoscono una parola. È bene mostrare che si può ricorrere al vocabolario per scoprire che cosa significa polimero o asintotico».

Quando un bambino formula le prime frasi, è giusto correggerlo se sbaglia?

«Se dice “ho aprito” è inutile riprenderlo direttamente. Meglio ricordarsi di pronunciare, un po’ di tempo dopo, il corretto “ho aperto”. L’immensa forza naturale dell’imitazione lo guiderà».

Per farsi un’idea, un bambino sugli otto anni, quante parole dovrebbe conoscere?

«Se un adulto colto in media padroneggia 60-70.000 parole, a quell’età un bambino dovrebbe usarne in modo appropriato 2.000 del cosiddetto vocabolario fondamentale. Un buon gruzzolo di cui fare tesoro negli anni successivi».

Anni in cui i ragazzi diventano assi del computer, ma tralasciano carta e penna.

«L’accesso alle tecnologie non è un male, anzi, va incoraggiato. Prendiamo gli sms, spesso sotto accusa: non sono nocivi all’apprendimento. Al contrario, obbligano a esprimersi efficacemente in modo sintetico. Detto questo, però, bisognerebbe valorizzare di più la scrittura a mano, come i giapponesi, per esempio».

Quali oggetti sono utili ad affinare il gusto per la scrittura?

«Nei primissimi mesi di vita le lavagnette magnetiche e i libri illustrati. Poi lavagne vere, fogli di carta, matite e penne per scarabocchiare».

Imparare l’inglese serve o distrae?

«Già il poeta Giacomo Leopardi spiegava quanto è importante sapere più di una lingua straniera per perfezionare la conoscenza dell’italiano. Vale la pena cominciare a studiare due lingue straniere fin dalle elementari».

La tivù aiuta?

«Televisione è un sostantivo di forma singolare che, però, ha un significato plurale: dipende. Ci sono programmi pessimi e altri fatti bene che aiutano a maturare il lessico e le capacità di scelta e critica».

Lei da chi ha ereditato la passione per la linguistica?

«Da una mamma insegnante di matematica, ma grande lettrice ed enigmista, da un papà chimico e farmacista. E dai fratelli, anche loro lettori voraci; uno abilissimo risolutore di rebus».

Oggi, da nonno a nonni, che cosa consiglia?

«I consigli educativi ai propri cari servono a poco. Il grande scrittore Giovannino Guareschi diceva: “Siamo tutti bravi a educare i figli. Degli altri”. Più delle esortazioni, vale l’esempio».

Che esempio devono dare gli insegnanti?

«Secondo Arthur Schopenhauer, il grande filosofo pessimista, i docenti sono “quelli che, dedicando il loro tempo a insegnare, non ne hanno più per studiare”. Bisogna assolutamente smentirlo e aggiornarsi, andando sempre incontro al nuovo con entusiasmo».

Riproduzione riservata