Ogni figlio ha un dono: storie di genitori che non si arrendono, sognano un futuro migliore, imparano nuovi modi di vedere il mondo. Valorizzare le risorse personali è la vera sfida

Arabella Carter-Johnson, mamma e autrice del libro Una bambina di nome Iris Grace (edizioni Tea) scrive: «Ecco qual era la chiave: dovevo catturare la sua incredibile capacità di concentrazione con attività che avessero un senso per lei». Musica, giochi sensoriali, pennelli e tazze di colore, vasche piene di palline: nel mondo di Iris è la casa intera a trasformarsi in un laboratorio su misura. Una festa dei sensi, perché proprio di questo si tratta. Il non verbale occupa circa l’80% della nostra comunicazione quotidiana, nel caso dell’autismo il corpo, dai gesti alla postura, assume un’importanza speciale. Per una persona autistica l’interazione con il mondo è un viaggio in cui oggetti e parole evadono dall’ordine convenzionale per approdare a una terra misteriosa fatta di simbolismi profondi, sensazioni memorizzate, linguaggi nuovi. Attraverso il racconto di una quotidianità che cambia a piccoli passi Arabella Carter-Johnson lancia una sfida a tutti noi: se provassimo a vivere l’autismo come un modo diverso per conoscere il mondo?

“Lavoriamo perché l’emozione trattenuta dall’autismo si possa liberare con la felicità e la parola, giorno per giorno, ora per ora” si legge nel sito web de L’emozione non ha voce Onlus. Nel 2015 tredici ragazzi dell’associazione sono partiti per un viaggio a cavallo che li ha condotti da San Marcello Pistoiese attraverso boschi e torrenti da guadare. La meta finale? Boccassuolo, nel cuore dell’Appennino modenese, dove si progetta la costruzione di un centro e si sogna un luogo che sia laboratorio di attività, occasione di lavoro e tempo libero da vivere insieme. Sport, lavoro, integrazione: una missione difficile quella di un genitore che cerca di dare al proprio figlio le stesse possibilità a cui ogni bambino ha diritto.

Che cosa significa vivere l’autismo a vent’anni? Secondo i dati nel 2012 negli Stati Uniti solo l’1% dell’intera spesa per l’autismo è stata destinata agli adulti affetti da autismo. Il problema da affrontare è la tragica carenza di progetti dedicati a ragazzi e adulti. Come ci spiegano all’Anffas di Ostia gli aiuti a livello statale sono pressoché inesistenti. È grazie all’iniziativa dei genitori e corsi finanziati dalle associazioni se sognare un futuro migliore diventa possibile, eppure è tempo di riflettere in maniera più profonda su ciò che intendiamo offrire in quanto società. Una volta terminata l’istruzione scolastica oggi non esiste una reale scelta per quanto riguarda progetti di formazione e avvicinamento al lavoro: chi è adulto si trova a combattere contro un isolamento profondo, spesso nell’indifferenza generale di chi non conosce questa situazione.

Ilde Platerotti, Presidente Anffas Ostia Onlus spiega: «Fino ai 18 anni il Tsmree delle varie Asl (Tutela Salute Mentale e Riabilitazione in Età Evolutiva) garantisce, anche grazie ad associazioni come la nostra, percorsi educativo-riabilitativi che aiutano i ragazzi a sviluppare la maggiore autonomia possibile e una vita quanto più possibile ‘normale’. Con il passaggio alla maggiore età iniziano i problemi: non hanno più l’età per essere seguiti dai neuropsichiatri infantili e neppure gli psichiatri possono fare molto perché la loro è considerata una semplice disabilità. Questo mette a rischio tutto il percorso fatto. I ragazzi perdono quasi completamente l’autonomia acquisita, mentre i genitori diventano dei reclusi in casa che devono badare ai figli. Ogni giorno è uguale all’altro. Quando il figlio diventa grande e i genitori invecchiano il problema diventa una montagna difficilmente scalabile. Subentra l’angoscia su chi si occuperà e prenderà cura del proprio figlio dopo che i genitori non ci saranno più o quando saranno troppo anziani».

Dal 2007 l’Anffas di Ostia ha attivato corsi di formazione professionali, ultimo di questi un corso per barman, che mira a dare i ragazzi le abilità necessarie per preparare cocktail e caffè, servire ai tavoli e svolgere un lavoro a contatto con il pubblico. Il progetto è stimolante, tanto da aver attirato l’interesse di un gruppo di ricerca dell’Università di Tromso, in Norvegia, venuta in Italia per studiare il caso da vicino. Al momento sei ragazzi hanno ricevuto l’attestato che prova le loro capacità professionali: Tommaso, Lorenzo, Jessica, Giordano, Anton, Francesca.

«Il lavoro? Non mi spaventa» spiega sorridendo Giordano, 22 anni. Lavora in un hotel del centro di Roma come steward in cucina e racconta: «All’Eden avevo già lavorato prima che chiudesse per lavori di ristrutturazione. Oggi torno con maggiore esperienza e un bagaglio culturale molto più elevato grazie al corso per barman a cui ho partecipato. Sento di poter crescere e un giorno aspirare a essere promosso. Voglio essere autonomo, avere un lavoro, guadagnare e farmi una vita mia. Un passo alla volta. Ora inizio nuovamente con tanta voglia».

Racconta Alessandra, mamma di Lorenzo: «Io e mio marito non ci siamo mai fermati davanti a nulla. Siamo stati anche molto fortunati ad aver incontrato persone e associazioni come l’Anffas Ostia Onlus, che hanno creduto insieme a noi al fatto che Lorenzo potesse e possa essere completamente indipendente. Siamo andati oltre le paure, facendoci forza uno con l’altro. Un figlio tendi sempre a proteggerlo. Noi invece abbiamo cercato di dargli tutte le opportunità di cui aveva bisogno. Ho avuto un grande marito accanto. Molte mamme spesso si ritrovano a dover lottare da solo. Io no. Con mio marito siamo stati alleati contro un qualcosa che spaventerebbe chiunque. Combattiamo ogni giorno affinché Lorenzo possa avere una vita sua, indipendente».

Diventare indipendenti, avere un lavoro, allacciare relazioni positive è un’avventura quotidiana. Attraverso i racconti dei genitori emerge il coraggio di un genitore che accetta di sperimentare ogni strada possibile per rompere l’isolamento e valorizzare le risorse di un figlio: un obiettivo che è di tutti noi, possibile solo quando inizieremo a impegnarci per creare una rete solidale a livello sociale. Fare rete significa creare contesti di fiducia e scambio, in cui accrescere la propria forza attraverso l’appartenenza a una realtà più ampia, in grado di abbracciare le vulnerabilità e sollecitare l’impiego delle proprie risorse personali. «Sarebbe stato fantastico se le persone fossero riuscite a guardare oltre la disabilità e scorgerne le potenzialità» scrive Arabella Carter-Johnson: «Volevo che la gente lasciasse perdere la diagnosi e capisse che la diversità è bella». Trasformare la propria vulnerabilità in un punto di vista, unico e irripetibile, sul mondo, ecco la sfida. Le potenzialità di ognuno sono là dove impariamo a vederle, lasciando spazio per la pura espressione.

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