Femminicidi

Femminicidi: l’importanza delle parole che scegliamo

Il linguaggio con cui di solito si raccontano i femminicidi perpetua, anche inconsciamente, stereotipi maschilisti. E deresponsabilizza gli assassini. Iniziamo a cambiarlo

La narrazione dei femminicidi rischia di diluire le colpe dell’omicida

Le parole sono importanti, ricordava Nanni Moretti a una giornalista un po’ sventata in Palombella Rossa. Plasmano il nostro pensiero, la rappresentazione che diamo di noi e del mondo. «Ce ne siamo accorti per esempio leggendo i resoconti sul femminicidio di Giulia Tramontano. Dove molti dei termini impiegati ci allontanano dalla verità dei fatti» commenta Marco Brando, giornalista e autore per il portale di Enciclopedia Treccani. «Il linguaggio giornalistico, come quello giuridico, è intriso di locuzioni reiterate da professionisti. Che per pigrizia, spesso per sensazionalismo, inconsciamente perpetuano stereotipi patriarcali e maschilisti radicati nel nostro substrato socio-culturale. Così, la narrazione rischia di diluire le colpe dell’omicida o di traslarle in parte sulla vittima.

Femminicidi, perché le parole vanno scelte con cura

Quando parliamo di femminicidi nei richiami ai presunti moventi – la gelosia o lo “stress”, evocato per l’assassino di Giulia – s’insinua spesso un sottotesto. È la vittima che istiga, ingelosisce o stressa, lei che malauguratamente indossa bikini o minigonne. Anche l’uso frequente di espressioni come “raptus” o “furia cieca” contribuisce a deresponsabilizzare i carnefici. È come se a prendersi la vita di una donna non fosse un uomo adulto, spesso marito, compagno, parente. Ma una fatalità ineluttabile».

Non chiamiamoli raptus, ma con il loro nome: femminicidi

«A enfatizzare tale lettura c’è poi la tendenza ad accostare agli assassini epiteti come “padre esemplare”, “gran lavoratore”. “Faccia d’angelo”, nel caso di Senago, in barba ai codici deontologici che quando sono coinvolti soggetti vulnerabili prescrivono cautele particolari. Più facile cadere in queste trappole che attribuire ruoli precisi alla vittima e al carnefice. Riconducendo questi delitti a un fenomeno con un nome preciso, femminicidio, che allude ai rapporti tra i generi, all’atavica presunzione maschile di avere controllo e giurisdizione sui corpi e i destini delle donne».

Le parole sbagliate perpetuano gli stereotipi

E se per qualcuno è azzardato dire che lì, nelle parole usate male dai media, al bar o in famiglia, si annidi il seme della violenza, «di sicuro queste contribuiscono a perpetuare un alibi». Per il sito di Treccani, di cui cura la sezione “Lingua italiana”, Brando ha cercato di individuare i limiti di questa narrazione e gli strumenti per prevenirla.

Una ricerca ci viene in aiuto

«Esiste una ricerca disponibile gratuitamente online – Stereotipi e pregiudizi: la rappresentazione mediatica e giuridica della violenza di genere, a cura di Flaminia Saccà per Franco Angeli – che esamina questi testi anche dal punto di vista sociologico. In soccorso a giornalisti e comunicatori, sarà poi presto disponibile un algoritmo messo a punto da un team di ricercatori delle università di Pavia e Groningen, nei Paesi Bassi. L’algoritmo impiega la linguistica computazionale per identificare, tra migliaia di testi giornalistici e divulgativi sui femminicidi, i punti più suscettibili all’equivoco.

Come funziona l’algoritmo

«Il team ha intervistato centinaia di universitari, maschi e femmine, chiedendo loro l’impressione ricavata da tali letture. Ha poi insegnato all’algoritmo a ragionare allo stesso modo. Consultarlo non sarà un obbligo, ma servirà a misurarsi con bias e stereotipi di cui siamo tutti inconsciamente portatori e a disinnescare i semi di violenza che si annidano nelle parole» conclude Brando.

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