Caivano Parco Verde

Fortuna e il palazzo degli orrori di Caivano

La piccola Fortuna Loffredo, lanciata dal balcone di casa nel giugno del 2014 dopo anni di abusi, viveva in una realtà degradata, violenta e omertosa. Dove di umano non è rimasto più nulla, le persone sono abbruttite dal contesto e la percezione del male è differente. Ecco la nostra denuncia

Il coraggio dei bambini e l’omertà degli adulti. Un palazzo degli orrori, dove una rete di pedofili agiva indisturbata da anni, dentro le case popolari del Parco Verde di Caivano (Na). Tutto questo è il caso di Fortuna Loffredo, detta “Chicca”, lanciata dal balcone di casa nel giugno del 2014 dopo anni di abusi, di cui oggi è accusato Raimondo Caputo, il convivente della mamma dell’amica del cuore della bambina e madre di Antonio Giglio, un bambino morto in circostanze analoghe un anno prima di Fortuna.

Il degrado qui è estremo

Su questa terribile storia dalla periferia italiana, fatta di violenza, degrado e crimine, abbiamo raccolto il commento di Rosaria Capacchione, napoletana, senatrice del Partito Democratico e membro della Commissione parlamentare antimafia, per oltre vent’anni cronista giudiziaria del quotidiano Il Mattino e autrice del libro L’oro della camorra (Bur), che per la sua attività è finita più volte nel mirino della criminalità organizzata campana. «Quello che ha colpito anche me, pure abituata a raccontare fatti di violenza estrema, è stata la condizione di estremo degrado in cui si è svolta questa storia. Solitamente questi fatti accadono all’interno delle mura domestiche. Qui, invece, tutto è successo all’interno di un intero condominio, coinvolgendo varie famiglie. Mi ha impressionato la consapevolezza diffusa su chi fosse il responsabile unita a un’omertà altrettanto diffusa.

“È stato Titò” (come veniva chiamato Caputo, ndr): lo sapevano anche i bambini, che c’era una persona da cui stare alla larga. C’è poi un altro elemento che mi ha colpito, la frase registrata che la mamma, compagna di Caputo, dice alla figlia: “Non ti preoccupare, poi ti passa…”, che lascia intendere come anche la donna sia stata vittima di violenze simili.

L’incredibile rete di omertà

Tragedie come la pedofilia sono trasversali a tutti i ceti sociali, capita nelle case popolari e nelle ville con piscina. Non è una specificità della periferia, come dimostra la cronaca, consegnandoci esempi anche in ambienti “insospettabili”. Ma normalmente il vicino di casa che sa e non vuole compromettersi manda una lettera, fa una telefonata anonima. Qui, al contrario, nessuno ha detto nulla. È per questo che il silenzio mi ha colpito più del solito. È un silenzio forte perché per questo tipo di reati qualcuno avrebbe potuto suggerire un sospetto. Invece solo assoluto e totale silenzio. È un’anomalia anche rispetto al vissuto folkloristico napoletano per cui “i figli so’ pezzi ’e core”, “i bambini non si toccano”. I bambini invece sono stati toccati. E l’omertà ha prevalso sulla pietà.

Il male qui non esiste più

Questo fa parte del degrado umano prima ancora che urbanistico e sociale. Qui l’abitudine a non denunciare, la consuetudine al silenzio sono arrivati a livelli così barbari da valere anche di fronte agli innocenti. In queste periferie di umano non è rimasto più nulla. Le persone sono abbruttite dal contesto. La percezione del male è differente. Non c’è più. Qui di umano non è rimasto nulla. Anche il dolore, l’ingiustizia, la sofferenza più profonda come la morte di un figlio, restano all’interno di una bolla di violenza totale. Qui tutto assume un’altra dimensione.

Questo interroga le responsabilità di chi consente l’esistenza di periferie di questo tipo, che in Italia sono tante. E non parliamo solo di Napoli, ma anche di Roma, Milano. Tutte le periferie delle aree metropolitane sono un mondo altro, dove vivono zombie, non persone.

I bambini sono migliori dei grandi

L’unica cosa che mi ha colpito in positivo, sono i bambini. Gli unici che hanno rotto il muro dell’omertà. I ragazzini, andando a scuola, quando ci vanno, sono riusciti a uscire dal loro contesto di provenienza, e a parlare. Il che vuol dire che c’è una speranza. E questa speranza passa attraverso la scuola, l’unica agenzia sociale che ha funzionato».

Intervista a Eugenia Carfora, preside della scuola di Caivano

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