congedo paternità

Congedo di paternità, cinque giorni non bastano

Il Parlamento europeo "allunga" di 10 giorni il congedo per i neo papà. Ora anche l'Italia dovrà adeguarsi, ma nel nostro Paese ancora troppe madri sono costrette a lasciare il mercato del lavoro con la maternità. Ecco come funziona nel resto  d’Europa

Il congedo di paternità si “allunga” e arriva a 10 giorni retribuiti nei quali i neo papà potranno stare a casa in occasione della nascita del figlio o figlia. La novità, attesa da tempo, arriva dal Parlamento europeo, che ha approvato un’apposita direttiva, frutto di un’intesa raggiunta tra il Consiglio e la stessa assemblea di Bruxelles. La misura, che dovrà essere recepita entro tre anni dagli Stati membri, prevede anche due mesi di congedo parentale retribuito come requisito minimo per gli paesi europei. L’obiettivo è quello di rafforzare il ruolo dei padri all’interno delle famiglie, faciilandone il distacco dal lavoro al momento della nascita dei figli e portando a un maggior equilibrio rispetto alle madri e donne che, se lavoratrici, sono sempre più discriminate dalla maternità.
E’ lo stesso intento che ha portato il Governo italiano ad aumentare a cinque i giorni di congedo di paternità, con l’ultima legge di Bilancio 2019. Troppo pochi, secondo le associazioni che si battaono per maggiori diritti per le donne e madri lavoratrici: “Cinque giorni non ci bastano, è ridicolo. Non sono sufficienti neppure per garantire una relazione tra il padre e il bambino. Sono solo un piccolo accompagnamento” commenta Isa Maggi, coordinatrice degli Stati Generali delle Donne. 

Troppo spesso, infatti, le donne decidono di lasciare volontariamente la propria occupazione, perché non supportate adeguatamente nella gestione della casa, della famiglia e del lavoro. Oppure sono soggette a ricatti impliciti e striscianti da parte dei datori di lavoro, spaventati all’idea di perdere una dipendente in caso di nascita di un figlio. Il risultato è una forte disoccupazione femminile, con conseguenze anche per l’economia generale del Paese: il Fondo Monetario Internazionale ha stimato nel 15% la perdita di Pil dovuto alla mancata incentivazione del lavoro tra le donne.

La direttiva europea: due misure

Il provvedimento ha ottenuto il via libera dal Parlamento europeo a larga maggioranza (490 sì, 82 no e 48 astensioni). Trattandosi di una direttiva, è previsto un lasso di tempo, esattamente di tre anni, per essere recepita dai singoli stati membri. Prevede, dunque, il diritto per i padri di assentarsi dal lavoro per 10 giorni lavorativi, in occasione della nascita di un figlio, pur essendo retribuiti con un livello non inferiore all’indennità di malattia. Oggi in Italia i giorni sono la metà, cinque, più uno facoltativo ma solo in caso di accordo con la madre e per sostituirla. L’altra misura consiste in due mesi di congedo parentale non trasferibile e retribuito. I 60 giorni, dunque, non potranno essere “ceduti” all’altro genitore. Sarà compito dei singoli stati membri fissare la retribuzione minima adeguata, considerando che spesso lo stipendio dell’uomo è maggiore rispetto a quello della donna e che perderlo, per occuparsi del bebé, può comportare un disagio economico per la famiglia.

Padri e madri dopo la nascita di un figlio

La direttiva potrebbe avere un effetto positivo anche in Italia, dove 7 donne su 10 (70%) ricorrono alle dimissioni volontarie quando diventano madri, contro il 20% degli uomini. Colpa forse del retaggio di una società patriarcale. Ma gli ultimi dati dell’Ispettorato del Lavoro (riferiti al 2017) fotografano una realtà ben diversa: su 37.738 dimissioni volontarie da parte di genitori con figli con meno di 3 anni, poco meno di 25mila sono donne, che hanno indicato nella mancanza di nidi e nei costi elevati la principale motivazione della loro decisione, mentre circa 5.000 cambiano datore di lavoro. Si tratta di un trend consolidato: tra il 2011 e il 2016 circa 115.000 neomamme si sono dimesse. Sono spesso under 35 (1 su 2) che non riescono a conciliare la cura dei figli con la professione. Tra gli uomini solo 7.859 hanno lasciato il lavoro (per 5.609 per una nuova azienda). Significa che il peso della gestione della famiglia ricade ancora troppo sulle spalle delle madri. Quando poi sono lavoratrici autonome la situazione peggiora.

Congedi sì, ma solo per dipendenti

L’intesa in sede europea necessita di tempi ancora lunghi perché diventi pienamente operativa: dopo il vito da parte dell’Assemblea plenaria, deve ottenere il via libera definitivo del Consiglio ed essere pubblicata in Gazzetta Ufficiale. Gli Stati membri avranno quindi tre anni per recepire le indicazioni sul congedo di maternità e cinque per il congedo parentale. E nel frattempo? L’Italia con la legge di Bilancio 2019 ha introdotto alcune novità: ha allungato il congedo obbligatorio per i padri italiani a cinque giorni al 100% dello stipendio (per genitori naturali, adottivi, affidatari), introducendo la possibilità di usufruire di un sesto giorno, che va scalato da quelli che spettano alla madre. C’è però il limite che la misura riguarda i lavoratori dipendenti: “E’ troppo poco: bisognerebbe aumentare almeno a cinque settimane, se non a uno o due mesi come nel nord Europa” dice Maggi.

Spagna e Italia, confronto impietoso

Nonostante si tratti di un passo avanti, la novità è ritenuta “timida”, soprattutto se confrontata con altre realtà europee, come quella spagnola: i dipendenti iberici hanno diritto a cinque settimane di paternità a stipendio intero. Entro quest’anno, inoltre, Podemos ha trovato un accordo col Governo per estendere la misura a 8 settimane, che saliranno a 12 nel 2020 e 16 nel 2021, arrivando allo stesso numero di settimane delle madri e non trasferibili. Un obbligo, dunque, che equipara nelle intenzioni i due genitori nel momento della nascita di un figlio. La dimostrazione “vivente” è la storia di

Ma anche in altri Paesi il congedo di paternità è più esteso per i padri: in Finlandia si arriva a 9 settimane volontarie (non cedibili), in Portogallo a 5, ma con metà del periodo obbligatorio. Il principio di fondo, dunque, è che proprio l’obbligatorietà possa rappresentare un diritto, ma anche un dovere di cura per i padri, con una parificazione tra genitori senza distinzioni nei confronti delle madri.

Basta “conciliazione”: serve un riequilibrio

“Rivolgiamo un appello forte a cambiare una parola che ci riguarda più e che è conciliazione. È un termine fuorviante, inventato da un legislatore maschio, che confonde la realtà. Sottintende un’antitesi tra il lavoro di cura (dei figli o dei genitori anziani o malati) e il lavoro professionale. Si concilia una multa, non il proprio tempo. Esortiamo le donne a suggerirci un altro termine, più simile a riequilibrio” spiega Isa Maggi, che lancia anche una proposta: “Vorremmo poter rispolverare i contenuti della legge 54 del 2000 che all’articolo 9 prevedeva una figura di delega e sostituzione per le donne: una persona che accompagni la maternità, specie per le imprenditrici e le libere professioniste, che le supporti in alcune delle mansioni che devono svolgere, come depositare atti e documenti in tribunale per una donna avvocato. Avremmo un doppio risultato: creeremmo nuove figure professionali e nuovo lavoro, e nello stesso tempo salvaguarderemmo le madri quando sono in difficoltà, il tutto grazie a un contributo economico” conclude la coordinatrice degli Stati Generali delle Donne.

Riproduzione riservata