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Se la maternità discrimina le libere professioniste: cosa fare

Gli Stati Generali delle Donna analizzano il fenomeno e soprattutto propongono soluzioni concrete per superare le differenze tra le lavoratrici dipendenti e quelle autonome nella gestione della maternità

“Ci sono eventi della vita che dovrebbero essere uguali per tutti, la nascita è uno di questi, ma per il nostro sistema previdenziale non lo è la maternità”. È un’amara considerazione quella che emerge dai dati sulle donne madri libere professioniste, piccole imprenditrici o lavoratrici parasubordinate, che si trovano a dover coniugare non solo la famiglia, il lavoro e la casa, ma a dover anche fare i contri con penalizzazioni in termini di stipendio, indennizzo di maternità e pensione.

L’Italia è il paese europeo dove si fanno meno figli in Europa (nel 2017 appena 458mila, secondo Eurostat. Ed è anche quello dove le donne lavorano meno e sono meno pagate rispetto agli uomini, specie se sono libere professioniste: secondo l’INPS le lavoratrici parasubordinate (collaboratrici o con contratti a progetto) guadagnano mediamente il 50% rispetto ai colleghi maschi. “Colpa” della maternità, che rappresenta spesso un “problema” per i datori di lavoro e anche per le libere professioniste. Lo dimostrano sempre i dati di Inps e Corte dei Conti, ma soprattutto lo sanno bene tutte le lavoratrici autonome che sono anche madri o che vorrebbero esserlo, e che si scontrano con le difficoltà di poter avere un figlio, mantenendo il lavoro. Una volta a casa in maternità, infatti, non solo sono pagate meno, ma la loro pensione sarà molto più “leggera” per effetto del meccanismo di calcolo dei contributi previdenziali.

Proprio per superare queste differenze e discriminazioni lavorano le promotrici degli Stati Generali delle Donne, che hanno presentato proposte concrete in occasione del tavolo di lavoro Donne: Fisco, Imprese e Libere Professioni, il 23 gennaio nella sezione Monza e Brianza. Gli Stati Generali delle Donne, nati come forum permanente nel 2014 per dare voce alle donne, hanno come coordinatrice Isa Maggi, commercialista 60enne, presidentessa e componente del tavolo Imprenditoria femminile presso il ministero dello Sviluppo economico. Grazie alle numerose iniziative (un incontro a Matera il 24 e 25 gennaio e un altro in programma il 25 febbraio al Think Tank ABC al Teatro Verdi di Milano) sono riuscite a sensibilizzare e portare le proprie istanze e quelle delle donne lavoratrici fino al Ministero, con l’impegno del Sottosegretario Vincenzo Spadafora a concretizzare in proposte di legge le idee sostenute dalle esperte che hanno presto parte al tavolo.

Indennizzi maternità differenti: perché

“La libera professionista, che è anche madre e gestisce la casa, si trova a fare un doppio lavoro, ma ha una retribuzione non solo inferiore a quella dei colleghi uomini che svolgono hanno un’occupazione identica, ma soprattutto rispetto a una lavoratrice dipendente. Questo perché la legislazione prevede un trattamento differente per le due categorie in caso di malattia e maternità” spiega a Donna Moderna Valeria Rossana Volpe, coordinatrice del tavolo Fisco degli Stati Generali delle Donne di Monza e Brianza ed esperta di Comunicazione. “In caso di malattia la piccola imprenditrice che rimane a casa per malattia non è retribuita e rischia anche di perdere un contatto con un cliente, ha dunque una perdita in termini di potenziale fatturato e non ha tutela da parte dello Stato, al contrario di quanto accade a una dipendente” spiega l’esperta, che aggiunge: “In caso di maternità accade lo stesso, ma in più l’assegno di maternità le viene doppiamente tassato, sia alla fonte sia perché considerato – erroneamente – fonte di reddito e dunque finisce col contribuire al reddito imponibile. In pratica paga due volte, ingiustamente” dice Volpe.

In pratica gli Enti di previdenza impongono di pagare i contributi previdenziali anche su somme corrisposte a titolo di prestazioni assistenziali, che vanno a sostituire il reddito, ma in realtà non lo sono. “Il fatto che l’Inps eroghi l’indennità e poi ne richieda in dietro una parte appare inconcepibile” aggiunge l’esperta, che ha coordinato il tavolo insieme a Stefania Lanzillotto, docente di diritto tributario, Albertina Gavazzi, avvocato civilista, Rossella Nigro, imprenditrice, Ida Lombi, avvocato di diritto assicurativo e di famiglia, Roberta Succi, avvocato penalista ed Esmeralda Merenda, avvocato di diritto del lavoro.

Pensione più “leggera”

Questa diversità di trattamento si riflette anche sulla tutela pensionistica e sul “peso” della pensione, ridotta notevolmente per le lavoratrici autonome, che versano i contributi alle casse professionali previste dalla Legge n. 103 del 2006 (biologi, chimici, periti industriali, infermieri e liberi professionisti come commercialisti, avvocati). “Questi lavoreranno una vita per ottenere una pensione inferiore al 30% dell’ultimo stipendio. Infatti, la pensione media erogata nel 2016 da queste casse professionali ai propri pensionati è stata di circa 200 euro al mese cadauno, nemmeno la metà dell’assegno sociale INPS destinato a chi ha 65 anni e 7 mesi di età e non ha contribuzione da lavoro” spiegano le esperte.

Dal momento che l’aliquota contributiva per queste casse è più bassa di quelle della gestione separata INPS, anche il calcolo contributivo ai fini pensionistici sarà inferiore: in pratica, chi dopo 30 anni di lavoro percepiva uno stipendio di 30mila euro, per via dei contributi versati, percepirà una pensione annua di 10mila euro circa. I versamenti nella Gestione INPS invece hanno aliquota al 25% e pertanto la pensione sarebbe migliore, pari a 20mila euro circa. Questo “obbliga” di fatto a crearsi una previdenza integrativa privata. Il problema però potrebbe aggravarsi perché le casse previdenziali stanno invertendo il trend e molte iniziano ad avvicinare la percentuale del 20% di trattenuta per i contributi. “Per le lavoratrici donne, che hanno mediamente redditi meno elevati rispetto ai lavoratori uomini, questo diventa un problema ancor più rilevante” – spiega Volpe – “Sarebbe d’auspicio poter assicurare a tutti i lavoratori una pensione di garanzia, cioè una soglia minima di pensione sotto la quale non si dovrà scendere per non rendere poveri i futuri pensionati, in relazione anche all’attività professionale svolta per un cospicuo numero di anni”.

Quali soluzioni

Per superare questa condizione di disparità gli Stati Generali delle Donne hanno messo a punto tre proposte concrete: riformare l’indennità di maternità a carico dell’INPS, equiparando le lavoratrici dipendenti alle lavoratrici autonome, cancellano la prassi di considerare l’assegno come fonte di reddito; equiparare totalmente le lavoratrici subordinate ed autonome, e maggiorare  le indennità di congedo maternità e parentale. Di conseguenza, innalzare l’indennità di maternità oltre il 100% del reddito, considerando che un figlio costituisce un costo e soprattutto che l’attività della lavoratrice autonoma è sempre soggetta a rischio d’impresa; infine, estendere i servizi di welfare aziendale alle autonome (comprese le iscritte alla Gestione Separata INPS e quelle che godono di regime agevolato, es. minimi) come servizi per l’infanzia, ludoteche, centri estivi e invernali e baby-sitting. Il documento finale del tavolo sul Fisco è stato presentato e inserito nel Patto per le Donne, con l’impegno del Sottosegretario alle Pari Opportunità Spadafora a inserirlo tra le proposte di legge sul tema.

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