Pensione: perché dovremmo andarci a 62 anni

L’emergenza Covid ha riacceso il dibattito su età pensionabile e contributi: la proposta è di abbassarla a 62 anni. Nuova proposta anche per le donne: un anno di contributi per figlio e un periodo da definire per il lavoro di cura familiare

L’età media per lasciare il lavoro e andare in pensione in Italia è di 67 anni, mentre nel resto d’Europa è di 63 anni. Per questo motivo e considerando gli effetti della pandemia in termini di perdita di posti di lavoro, uno studio della Uil ha sottolineato la necessità di introdurre maggiore flessibilità sull’età pensionabile, abbassandola a 62, in particolare per alcune categorie di addetti impegnati in lavori usuranti, riaccendendo così il dibattito sul tema di Quota 41.

La proposta della Uil

Ma perché si dovrebbe prevedere di poter lasciare il lavoro a 62 anni? «Intanto c’è necessità di riallineare l’età pensionabile a quella media europea, che è intorno ai 63 anni. e questa è un’esigenza che esisteva già prima del Covid. Di fatto oggi siamo 4 anni sopra lo standard dei partner Ue» spiega Domenico Proietti, segretario confederale della Uil, responsabile delle politiche previdenziali. «Si tratta di una nuova battaglia sul fronte pensionistico, dopo quella per l’Ape sociale che ha permesso di lasciare il lavoro ad alcune categorie a 63 anni, e quota 100. Anche se quest’ultima è venuta incontro alle esigenze di molti lavoratori, è pur sempre un provvedimento parziale, perché molto rigida: si può andare in pensione solo con 62 anni di età e 38 di contributi. Occorre più flessibilità, a maggior ragione adesso che gli effetti della pandemia si faranno sentire in maniera sempre più forte. E questo è il motivo che ha reso più urgente una riforma» spiega Proietti.

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Cos’è cambiato con la pandemia

La modifica dell’età di accesso all’assegno di anzianità era già al centro del confronto tra sindacati e Governo prima dello scoppio della pandemia, ma oggi la situazione è mutata: «L’emergenza sanitaria ha bloccato il tavolo di confronto che era avviato. Adesso è il momento di riprendere il dibattito. La crisi sanitaria, infatti, ha costretto alla chiusura temporanea di molte attività che anche adesso, con la riapertura, hanno esigenze produttive diverse» dice il sindacalista. Insomma, in molti casi possono trovarsi a dover tagliare il personale e, potendo scegliere, sarebbe meglio poter permettere ai lavoratori vicini alla pensione di poter lasciare il posto anticipatamente, senza dover aspettare i 67 anni. «Si tratta di un problema evidenziato anche nella primissima fase dell’emergenza Covid dal piano Colao (la task force di esperti chiamata a fornire soluzioni per affrontare la crisi economica post-pandemia, NdR): era stato sconsigliato il rientro al lavoro per gli ultrasessantenni. Quell’ipotesi, però, è poi stata stralciata dal piano definitivo. Oggi che molte imprese si trovano a dover ristrutturare le attività, occorre uno strumento che permetta un’uscita più flessibile dal mondo del lavoro attivo» spiega Proietti.

Quali lavori avrebbero la precedenza?

«Occorre riavviare una discussione partendo da alcune categorie e analizzando settore per settore le diverse esigenze. Nella legge di bilancio avevamo fatto prevedere una norma sui lavori gravosi, ma la pandemia ha fermato tutto» spiega rappresentante della Uil. Ma quali sono i lavoratori da “agevolare”? «Noi abbiamo già individuato 15 categorie di persone che sono interessate da lavori gravosi, come le maestre d’infanzia, ma sono rimasti fuori comparti come quello dell’edilizia: è impensabile che un muratore di 67 anni salga ancora su un ponteggio in un cantiere» spiega Proietti, che però aggiunge: «È importante il principio della volontarietà: se un lavoratore è in buone condizioni e vorrebbe continuare a lavorare, dovrebbe essere libero di proseguire. Se al contrario è in difficoltà, ci deve essere la possibilità di anticipare il pensionamento».

Donne: un anno di contributi per figlio

C’è chi si lamenta del fatto che le donne hanno un’aspettativa di vita più lunga, ma vanno in pensione prima. La flessibilità dovrebbe riguardare anche loro? «Le donne in realtà sono le più penalizzate dal sistema previdenziale attuale, perché quasi mai raggiungono i 38 anni di contribuzione per accedere a quota 100. Il motivo è semplice: dopo la nascita di un figlio rimangono fuori dal mondo del lavoro spesso oltre il periodo di maternità. Inoltre, sono sempre loro a occuparsi in larga parte della cura dei familiari anziani o con disabilità. Per questo proponiamo che sia conteggiato un anno di contributi ai fini previdenziali per ciascun figlio avuto dalle madri lavoratrici e un altro periodo da definire per i lavori di assistenza familiare. Solo così valorizzeremo questi impegni anche ai fini previdenziali» spiega l’esperto. «Anche in questo caso esistono differenze tra le donne italiane e quelle di molti Paesi in Europa, dove il sistema sociale è strutturato in modo più efficiente» aggiunge Proietti

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Spendiamo “troppo” per le pensioni?

Se l’Italia appare non allineata agli standard europei è anche per “colpa” della Legge Fornero: «Con quella norma si è innalzata l’età pensionabile a 67 anni, creando un enorme dislivello. Quella legge fu dettata da esigenze di cassa di quel momento, che oggi vanno superate. Non vogliamo tornare a meccanismi sbagliati del passato, anche perché è cambiata l’aspettativa di vita, ma semplicemente riallinearci alla media di altri Paesi sviluppati» spiega Proietti.

Secondo i dati OCSE 2019 la spesa media previdenziale era del 18,1% del PIL, con punte del 31,5% per l’Italia e la Grecia, seguite da Portogallo (27,9%), Austria (26,2%) e Spagna (25,3%). Fanalini di coda, invece, il Regno Unito (13,8%), l’Irlanda (12,5%) e i Paesi Bassi (11,7%). L’Italia, quindi, spende “troppo” per le pensioni? «In realtà non è affatto così, anzi siamo sotto la media dei paesi che investono meno in previdenza. L’Inps, infatti, eroga sia assegni di anzianità che di sostegno sociale (come invalidità, ecc.). Ma se separiamo le spese di previdenza da quelle di assistenza (che assorbono la fetta maggiore), ecco che le prime – quindi le sole pensioni -scendono al 12%, dunque ben al disotto. A confermarlo, di recente, è stato anche il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico.

Cos’è quota 41?

Oltre ai 62 anni, la Uil chiede la cosiddetta Quota 41: permetterebbe ai lavoratori precoci, coloro che sono entrati presto nel mondo del lavoro, di lasciare una volta raggiunti i 41 anni di contribuzione. «Oggi non esiste questa possibilità, perché anche i lavoratori precoci, che pure hanno raggiunto la quantità minima di contributi, non hanno 62 anni di età – spiega il sindacalista – Noi chiediamo che si possa andare in pensione senza vincoli di età anagrafica».

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