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Pensioni e gender gap: lo svantaggio delle donne

Quando di parla di gender gap si pensa soprattutto alle differenze di stipendio tra uomini e donne o allo squilibrio tra presenza femminile e presenza maschile nei palazzi della politica, nei consigli di amministrazioni e nelle altre stanze dei bottoni. Eppure la discriminazione di genere, come milioni di donne sanno, per esperienza diretta, pesa anche sulle pensioni. E non poco.

A inquadrare la situazione è Stefano De Iacobis, coordinatore del Dipartimento politiche previdenziali della Federazione nazionale pensionati della Cisl. «Le donne – constata – scontano una situazione di forte svantaggio anche sul fronte dei trattamenti pensionistici. Sono più numerose dei coetanei, però percepiscono cifre inferiori rispetto agli uomini. A fronte di 16milioni di pensionati – come certifica l’Istat, sulla base di dati aggiornati al 2017 – la componente femminile è pari al 52,5 per cento del totale. In un anno una donna mediamente porta a casa quasi 6mila euro in meno di un uomo. Il più basso importo dei singoli assegni è più frequente compensato dal cumulo di trattamenti pensionistici, seppur solo parzialmente».

Pensioni più basse di quelle degli uomini

«Per quanto riguarda la tipologia delle prestazioni pensionistiche – prosegue  il rappresentante della categoria – i differenziali di genere sono ancora molto ampi, anche se diminuiscono lentamente. Solo il 37,6 delle donne nelle fasce d’età interessate percepisce una pensione di anzianità, con un importo medio mensile lordo di 1.275,21. Per gli uomini la percentuale sale al 70,7 e la cifra arriva a 1.971,97 al mese. Gli uomini – altre statistiche ufficiali Istat – incassano il 55,4 per cento delle pensioni di vecchiaia, quelle direttamente legate al pregresso contributivo. Il corrispettivo annuale è in media superiore di quasi 8mila euro a quella che tocca alle donne. Anche per le pensioni indennitarie – per infortuni sul lavoro, cause di servizio e malattie professionali – gli uomini rappresentano la maggioranza (73,5 per cento), in quanto occupati in settori ad alto rischio (costruzioni, agricoltura, trasporti….). Gli importi sono tuttavia inferiori a quelli incassati dalle donne che, in molti casi, sono percettrici indirette a causa della morte del coniuge. Di contro, anche per una durata della vita più lunga, si registra una maggiore presenza femminile tra i beneficiari di pensioni ai superstiti, le reversibilità (86,5 per cento). In questo caso gli assegni sono più pesanti di quelli erogati agli uomini, visto che la cifra è legata alla situazione contributiva del coniuge defunto (9.341 euro annui lordi per le donne contro i 5.980 euro annui lordi per i coetanei)».

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Parità solo per gli assegni sociali

«Anche le pensioni assistenziali – continua De Iacobis – sono in maggioranza versate a donne (59,3 per cento), perché sono loro, più spesso degli uomini, a non aver avuto un costante e regolare percorso lavorativo e contributivo. Vanno alle donne il 58,2 per cento delle pensioni di invalidità civile, il 62,9 per cento delle sociali e il 64,1 pe cento di quelle di guerra, dato su cui influisce ancora una volta la percentuale elevata di pensioni indirette. Per questi trattamenti non si registrano significative differenze di genere negli importi medi, in gran parte definiti da norme di legge, con l’eccezione delle pensioni di guerra, con un importo medio di 10.830 euro tra gli uomini e di 5.087 tra le donne. Tra le donne, prima dell’introduzione della pensione di cittadinanza, il 18 per cento delle anziane non riceveva alcuna forma di pensione, mentre per gli uomini il tasso era “solo” del 3. Ma la misura di sostegno fortemente voluta dal Movimento 5 stelle non azzererà queste percentuali: sta avendo un impatto  limitato, diversamente dal reddito di cittadinanza, e le domande sono inferiori alle attese».

Le ragioni dello svantaggio femminile

«Le ragioni dello svantaggio femminile – va al punto il dirigente della Fnp Cisl – sono molteplici. Ma tutte, direttamente o indirettamente, dipendono dai diversi percorsi lavorativi che caratterizzano le carriere di uomini e donne, determinanti per il loro futuro pensionistico: penalizzazione professionale e dunque retribuzioni più basse, limitate possibilità di carriera, part-time, interruzioni di lavoro retribuito per la maternità e la cura familiare, lavori atipici e irregolari… La vita in famiglia genera sempre per le donne effetti deprimenti sui tassi occupazionali, per il più elevato carico di lavoro familiare che tuttora grava sulle loro spalle, in un contesto in cui gli interventi volti ad agevolare la conciliazione tra tempi di vita familiare e lavorativa restano ancora molto carenti o in cui questa è ostacolata da forti retaggi culturali. Basti pensare al basso numero di padri che fruiscono dei congedi parentali».

E, ancora: «L’attuale contesto economico e socio-culturale fornisce elementi che non lasciano spazio a prospettive positive: le disparità di genere nel mercato del lavoro e nell’organizzazione dei tempi di vita non muteranno sostanzialmente nel medio e lungo periodo, soprattutto per quanto riguarda il gender gap dei redditi pensionistici».

Non solo. «Il lavoro di cura non retribuito, perché svolto dalle famiglie e in prevalenza dalle donne, è una voce fondamentale del welfare informale del nostro Paese. Ma non è considerato, non abbastanza. È ora che queste attività vengano pienamente riconosciute a livello contribuito, previdenziale e pensionistico».

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La “rincorsa impossibile” delle donne

«Fino alla riforma Fornero del 2011 – ricorda sempre De Iacobis – la previsione di requisiti più favorevoli per l’accesso alla pensione di vecchiaia aveva  rappresentato, per le lavoratrici, la principale forma di compensazione delle interruzioni della carriera lavorativa e dei disagi connessi al lavoro non retribuito in ambito familiare. Era consentito restare in servizio fino al compimento della stessa età stabilita per il pensionamento del lavoratore (65 anni) e quindi avvalersi di una più dilatata età lavorativa. Dal 2011 la differenziazione è stata del tutto annullata con un impatto pesante, soprattutto per le lavoratrici dipendenti ed autonome. Da allora – continua – le donne hanno continuato a “rincorrere” l’età per la pensione di vecchiaia, la “rincorsa impossibile”, come è stata efficacemente definita. Ulteriori problematiche sono legate ai limiti posti per l’accesso alla pensione di vecchiaia nel sistema contributivo: è stato infatti elevato a 20 anni il requisito contributivo minimo e c’è un importo soglia ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale, il che potrebbe costringere tante lavoratrici a dover attendere i 71 anni per avere la pensione, nel caso in cui non rispettassero le condizioni. Ugualmente avviene per il requisito previsto per la pensione anticipata, fino al 2026 cristallizzato a 41 anni e 10 mesi. Anche in questo caso c’è un importo soglia che penalizza in particolar modo le donne e i giovani con le carriere più discontinue: la pensione anticipata conseguibile con il sistema contributivo a partire dai 63 anni e 7 mesi, con 20 anni di contributi, richiede un assegno pensionistico non inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale».

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Posizioni silenti: nessun diritto

Resta poi aperta l’annosa questione delle “posizioni silenti”. Rammenta il sindacalista : «Stiamo parlando di quei lavoratori, ma soprattutto di quelle lavoratrici, che prima del 1996 hanno cessato il loro rapporto di lavoro senza aver maturato alcun diritto alla pensione, regalando di fatto allo Stato tutta la contribuzione versata. Ancora una volta in questa condizione si trovano moltissime donne,  perché hanno avuto un percorso lavorativo più incostante e frammentato. Pensiamo a tutte quelle che, rientrando nel sistema misto, per una serie di ragioni hanno interrotto l’attività versando pochi contributi e che, al raggiungimento dell’età anagrafica prevista, non hanno potuto maturare il diritto alla pensione, e mai lo potranno, per la mancanza dei 20 di contribuzione minima richiesta. Al momento non esiste alcuna norma che riconosca tali posizioni e le valorizzi. Non è possibile richiedere la restituzione di quanto pagato, trattandosi di una contribuzione sostanzialmente improduttiva di effetti. In poche parole – chiarisce – sono fondi che l’Inps ha incamerato per legge, senza dare indietro alcunché in termini di prestazioni e senza nemmeno restituire il capitale versato».

Le proposte del sindacato

Le sigle sindacali del comparto pensionati hanno presentato al governo Conte bis una serie di richieste, rilanciando vecchie battaglie e aggiungendo temi nuovi. «Il processo di allineamento delle età di pensionamento tra uomini e donne non è stato accompagnato da misure correttive necessarie per promuovere una più estesa partecipazione femminile nel mercato del lavoro, dare un più ampio accesso agli impeghi di qualità e garantire una compensazione per quante si fanno carico di lavori di cura non retribuiti in ambito familiare. Occorre puntare concretamente a questi obbiettivi. Si dovrebbe pensare, ad esempio, a rendere strutturali e più accessibili l’Opzione donna e l’Ape social. Un’altra misura auspicabile è l’introduzione di un anticipo pensionistico per il lavoro di cura e delle donne, con la riduzione dei requisiti commisurata al numero di figli e di familiari assistiti. Poi c’è la necessità di valorizzare le posizioni silenti ante ’96. E torniamo a sollecitare – conclude De Iacobis – la rivalutazione delle “aliquote di reversibilità” oggi in vigore, quanto meno a favore del coniuge superstite senza redditi (al quale dovrebbe essere riconosciuta una percentuale maggiore rispetto all’attuale 60 per cento), oltre che a favore dei figli».

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