A 33 anni si può pretendere la paghetta?

Un padre è stato condannato a due mesi di carcere perché aveva sospeso la "paghetta" alla figlia, oggi 33enne. Non è il primo caso. Come si arriva a sentenze simili?

Qualcuno, ironizzando, la chiama “paghetta”. E c’è chi ritira fuori i termini “bamboccioni” e “choosy”, usati anni fa in modo dispregiativo. Ma la questione è di quelle serie. Riguarda gli obblighi di mantenimento dei figli, una volta cresciuti e diventati adulti, teoricamente in grado di badare a se stessi. Un tema che fa discutere, interroga, spinge a riflettere, divide.

Due mesi di carcere al padre

Una donna di 33 anni, con i genitori separati e uno stipendio di 786 euro al mese, ha querelato il padre perché lui da qualche tempo non le passava più l’assegno di mantenimento, 258 euro al mese. Il giudice penale si è schierato dalla parte della figlia, a dispetto dell’età di lei e del fatto che lavora e porta a casa una paga. Ha ritenuto il padre colpevole di non aver adempiuto agli obblighi familiari. E lo ha condannato a due mesi di carcere, per non avere passato alla sua ex bimba cresciuta quanto previsto dalla sentenza di divorzio. Non solo. La sospensione condizionale della pena è stata vincolata al pagamento, immediatamente esecutivo, di un anticipo di 3.000 euro. La parola fine però è ancora da mettere. L’uomo, disoccupato e nullatenente, aspetterà la pubblicazione delle motivazioni del verdetto e deciderà se adeguarsi – riprendendo anche a pagare l’assegno alla figlia adulta – o se invece presentare appello e sperare in un giudizio diverso in secondo grado (ed eventualmente in Cassazione).

Le accuse della figlia, l’autodifesa del padre

Il tutto è successo a Torino ed è stato raccontato da Repubblica.it. In aula, riferisce il sito del quotidiano, sono venuti fuori altri particolari. La giovane donna aveva denunciato il genitore il 29 dicembre 2014, spiegando che lui aveva smesso di contribuire al suo sostentamento e pure a quello della mamma. In udienza ha ripetuto: «Saltava alcune mensilità e non ha mai provveduto a versare il 50 per cento delle spese extra a mia madre. Dal dicembre del 2012 ha cessato ogni versamento. Questo comportamento mi sta causando gravissime difficoltà economiche, oltre a un profonda frustrazione e a un senso di disagio perché devo sempre far ricorso all’aiuto di mia mamma. Vivo con lei. Sognavo di iscrivermi all’università, dopo il diploma in ragioneria, ma non ne ho avuta la possibilità. Ho fatto qualche stage e lavoretti saltuari, fino a un part time nel 2015, con uno stipendio di circa 600 euro. Adesso ne guadagno 786».

Non è stato il bisogno ad aver spinto il padre

Il padre ha provato a spiegare la ragione delle sue scelte: «Ho smesso di versare l’assegno a mia figlia perché era grande e sapevo che stava lavorando. Se fosse stata disabile o avesse avuto dei problemi, sarei andato anche a rubare per darle dei soldi. Ma da quando è maggiorenne ha sempre avuto un’occupazione e questo per me era motivo di orgoglio». Il pm d’udienza non ha ritenuto che l’uomo avesse agito perché spinto dallo stato di necessità e ha chiesto di punirlo per «aver fatto mancare i mezzi di sussistenza alla figlia maggiorenne». Il giudice ha deciso per la condanna.

Il mantenimento va valutato caso per caso

Possibile? È stata data una interpretazione forzata del codice e delle leggi? O la sentenza ricalca perfettamente il quadro normativo, declinato in base al caso specifico? Lo abbiamo chiesto all’avvocato Katia Lanosa del foro di Bologna, vicepresidente nazionale dell’Ami, l’Associazione avvocati matrimonialisti italiani. Il primo rimando è alla Costituzione, articoli 30 e 147 e seguenti. L’altro testo di riferimento è il codice civile, rafforzato dalla legge sulla separazione e sull’affido condiviso. «La base normativa si trova nel principio costituzionale secondo cui i genitori hanno il dovere di mantenere, educare e istruire i figli. Specifiche disposizioni sono nel codice civile, modificate dalla legge sull’affido condiviso. Prevedono espressamente che il mantenimento dei figli riguarda entrambi i genitori e che l’onere non viene meno con il raggiungimento della maggiore età di ragazze e ragazzi. Cessa con il conseguimento dell’autosufficienza economica da parte della prole». In altre parole, spiega sempre l’avvocato Lanosa, «non si tratta di un obbligo protratto all’infinito, ma di un dovere della durata mutevole da valutare caso per caso». Il parametro generale di riferimento, per versare o no l’assegno, è il raggiungimento di un’autosufficienza economica tale da consentire a un figlio di provvedere autonomamente alle proprie esigenze di vita. Poi, nella realtà, si litiga e si bisticcia per i pagamenti e le omissioni. E si finisce in tribunale e in Cassazione, anche con esiti diversi da quello torinese.

Qual è il limite massimo d’età?

Ci sono sentenze simili precedenti? O contrarie? La risposta della giustizia sembra ondivaga. Il Tribunale di Milano, ad esempio, nel 2016 ha indicato un limite massimo d’età, prendendo come riferimento le statistiche nazionali ed europee: 34 anni (sempre che il figlio non abbia una grave disabilità e salvo il diritto a percepire gli alimenti, che sono altra cosa). Oltre questa soglia – è la motivazione data – il mantenimento paterno e/o materno diventerebbe un vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani». Nel 2018 il Tribunale di Modena ha concluso che anche con il superamento di una certa età, anche se non indipendente, il figlio maggiorenne raggiunge comunque una sua dimensione di vita autonoma che non lo rende più meritevole del mantenimento. «I doveri di auto responsabilità – si argomenta – impongono al figlio maggiorenne di non poter più pretendere la protrazione dell’obbligo al mantenimento oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura».

Quando non è giusto dare l’assegno

«La giurisprudenza di merito e di legittimità – conferma la vicepresidente dell’Ami – in più di un’occasione ha ritenuto di non riconoscere l’assegno di mantenimento ai figli cosiddetti “bamboccioni”, quelli che rimangono a casa con i genitori anche in età avanzata, quando non hanno un’attività economica redditizia per un atteggiamento di inerzia o perché si rifiutano di lavorare senza un motivo. L’accertamento della situazione – continua la matrimonialista – non può che ispirarsi a criteri di relatività. Si deve tenere conto delle aspirazioni, del percorso scolastico, universitario e post ­universitario del soggetto adulto a carico dei genitori e delle dinamiche del mercato del lavoro, con riguardo al settore compatibile con gli studi e la specializzazione dell’interessato».

Le variabili da valutare

Indicativa in questo senso è una recente pronuncia del Tribunale di Verona, datata settembre 2019 e richiamata dall’avvocata Lanosa. «Il diritto del figlio maggiorenne al mantenimento si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e aspirazioni, purché però compatibili con le condizioni economiche dei genitori e con criteri proporzionalmente crescenti in rapporto all’età dei figli. A fronte di un percorso scolastico non portato avanti o non ancora concluso, nonostante l’età, i due ragazzi di cui tratta la sentenza veronese non hanno colto le concrete occasioni per inserirsi nel mondo del lavoro e conseguire la propria indipendenza economica. Sono quindi venuti meno i presupposti per il riconoscimento dell’assegno a loro favore».

La giurisprudenza, inoltre, ha più volte definito quali sono i limiti del concetto di indipendenza di un figlio maggiorenne. Non basta che un figlio adulto abbia un qualsiasi impiego o reddito (come il lavoro precario, ad esempio) per far venir meno l’obbligo del mantenimento. Però non aènecessario che si tratti di un lavoro stabile, sono ritenuti sufficienti un reddito o il possesso di un patrimonio tali da garantire l’autonomia.

Cosa dice il codice penale

Non contribuire al mantenimento di ex mogli e figli, dove è stato previsto, è un reato, sanzionato con la reclusione fino a un anno o una multa da 103 a 1.032 euro. «L’articolo 570 bis del codice penale – illustra Katia Lanosa – punisce il coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio oppure vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione e di affidamento condiviso dei figli. Il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento in favore dell’ex partner o dei figli – ripete l’avvocata – integra di per sé un illecito penale. Ma il giudice, oltre a verificare la capacità effettiva del coniuge di dare attuazione concreta agli obblighi, è tenuto ad accertare se l’omissione abbia effettivamente privato i beneficiari dei mezzi di sopravvivenza e se la violazione dipenda dalla libera volontà dell’inadempiente o dalla sua accertata impossibilità di provvedere» .

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