Alzheimer: la depressione possibile spia della malattia

Per diagnosticare la malattia di Alzheimer, i primi indicatori che gli specialisti valutano con test specifici sono: la perdita della motivazione nell’effettuare le attività quotidiane, nel prendere iniziative, nel seguire le proprie passioni, gli sbalzi d’umore e, insieme, i ricordi che si fanno più opachi: queste difficoltà che cominciano a mostrarsi in età avanzata sono tutte dei campanelli di allarme. 

Fino a ieri, tuttavia, si pensava che questi deficit motivazionali fossero conseguenze del graduale decadimento delle funzioni cognitive legate alla malattia di Alzheimer, in particolare quelli della memoria: come se questa patologia “inghiottisse” i ricordi e spegnesse ogni motivazione nelle persone, come conseguenza della degenerazione progressiva e inesorabile.

La dopamina alla base di sbalzi d’umore e cali di memoria

In realtà questi aspetti sono parte di un meccanismo più complicato, alla base del quale c’è la dopamina, sostanza prodotta da ormoni specifici. La novità emerge da uno studio scientifico condotto da Marcello D’Amelio, professore associato di Fisiologia Umana e Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma.

Si tratta di una scoperta importantissima perché fino a ieri si pensava che la malattia fosse legata a un disturbo dell’ippocampo, zona del cervello dove hanno sede i nostri ricordi. Invece la parte del cervello “incriminata” è un’altra, più profonda. Come si è arrivati a questa conslusione? «Nella pratica clinica, soprattutto negli stadi iniziali, si osserva però che i pazienti hanno anche sintomi non cognitivi, come sbalzi d’umore e apatia generale. Avevo notato inoltre che l’ippocampo in queste persone non mostrava alcun danno. Era come se a queste persone mancasse “il carburante”, sia per far funzionare i ricordi che per il tono generale dell’umore. Sono andato quindi a ricercare “quel carburante”, che è un neurotrasmettitore, la dopamina, sostanza prodotta in una specifica zona del cervello, molto profonda» ci chiarisce il professor D’Amelio.

Depressione e memoria, facce di una stessa medaglia

L’area dove la dopamina viene prodotta si chiama tegmentale ventrale: la dopamina, secreta da specifici neuroni, viene poi utilizzata nelle aree della memoria e in quelle che regolano il nostro umore. «In coloro che soffrono di Alzheimer questo meccanismo si inceppa perché i neuroni di quella zona profonda sono danneggiati. Come in un effetto domino, questa anomalia provoca il mancato arrivo di questa sostanza nell’ippocampo (causandone il “tilt” che genera la perdita dei ricordi) e nei centri cerebrali responsabili dell’umore e della motivazione, dell’ “iniziativa” nel fare le normali attività».

L’ipotesi è stata poi confermata in test di laboratorio su animali: somministrando due diverse terapie mirate a ripristinare i livelli di dopamina, si recuperava il ricordo e anche la motivazione.

Chi soffre di depressione è a rischio?

I cambiamenti dell’umore sono quindi un “campanello d’allarme” dell’inizio della malattia di Alzheimer. «Perdita di memoria e depressione – avverte D’Amelio – sono due facce della stessa medaglia». Il meccanismo che non permette all’ippocampo di recuperare i ricordi e la presenza di depressione avrebbero la loro chiave proprio in questa carenza del neurotrasmettitore “dopamina”.

«Il danneggiamento dei neuroni dell’area tegmentale ventrale che producono dopamina, aumenta anche la possibilità di andare incontro a una progressiva perdita di iniziativa, indice di un’alterazione dell’umore. Questi pazienti cominciano a mostrare carenza di appetito e mancanza di interesse in tutte le attività che prima seguivano con passione, fino alla depressione».

Una nuova via per la ricerca del farmaco giusto

Vanno quindi indagati a fondo le origini di queste due disturbi, quando essi si presentano. E queste saranno anche le prossime sfide. «Il nostro studio ha chiarito l’origine della malattia, da qui dovranno partire altri approfondimenti: la messa a punto di strumenti di neuro-immagine per una diagnosi ancora più precoce, “fotografando” la zona del cervello che si degenera. Quindi l’aspetto terapeutico. Un farmaco che prevenga il danneggiamento di questi neuroni che producono dopamina, proprio per fermare la malattia», conclude il professore.

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