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Alzheimer: test, esami e prevenzione

Il 21 settembre è la giornata mondiale dell’Alzheimer, una malattia di cui soffrono 700mila persone in Italia (e i numeri sono destinati a salire). Qui facciamo il punto su: ricerca, diagnosi, prevenzione

Giornata mondiale dell’Alzheimer: 21 settembre

Il 21 settembre è la giornata mondiale dell’Alzheimer. E quest’anno le iniziative sono veramente tante, con l’obiettivo di arrivare a più persone possibile per informarle sulla malattia, sui sintomi. Per far sapere ai familiari che non sono soli. Per far sapere a chi è sano che si può fare molto per la salute del cervello, l’organo colpito dall’Alzheimer. 

È nato così, da un progetto di tesi, il cortometraggio Extension, visibile sul sito www.airalzh.it, che racconta la malattia. Mentre su www.korian.it/fermata-alzheimer è possibile controllare in quale città su ferma il bus che permette a tutti di vivere un’esperienza virtuale, per capire come vive chi soffre di Alzheimer. E incontri e spettacoli fanno parte del programma delle associazioni pazienti, come alzheimer.it e fondazione-manuli.org.

Alzheimer: i sintomi

Oggi dalle ricerche sta emergendo sempre di più che l’Alzheimer inizia molto tempo prima che affiorino i sintomi e una parte dei lavori sono proprio puntati su questa importante scoperta. Nel frattempo, aumenta l’attenzione a uno dei sintomi iniziali più importanti. Per fare un paragone è come se si producesse un cono di memoria che non c’è più: si è cancellato per sempre il nome di una persona cara, di solito il partner, di un avvenimento o di un viaggio che era rimasto nel cuore.

Comincia così l’Alzheimer, una malattia neurodegenerativa e la più comune forma di demenza. Attualmente ne soffrono circa 35 milioni di persone nel mondo e 700mila in Italia, ma sono numeri destinati a crescere nei prossimi anni a causa dell’invecchiamento della popolazione. Proprio per questa ragione, la ricerca sta lavorando anche per trovare molecole che siano in grado di arrestare il decorso della malattia, che porta man mano alla perdita totale della memoria. E in parallelo, si stanno affinando le tecniche diagnostiche, con l’obiettivo di cogliere l’Alzheimer in una fase sempre più precoce.

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I segnali premonitori cui prestare attenzione

Quando si sta accanto a una persona cara, prima o poi saltano agli occhi alcuni comportamenti, che prima non c’erano. Oltre ai buchi nella memoria, diversi dai vuoti perché ciò che si è scordato non torna più alla mente, c’è l’impoverimento del vocabolario. Per intenderci, è normale avere “sulla punta della lingua” una parola, ma con un po’ di sforzi la ritroviamo. Nel caso dell’Alzheimer, invece, parole semplici sono come cancellate, oppure vengono sostituite con altre del tutto illogiche.

In questi casi, vale il consiglio di rivolgersi a un centro specializzato, per essere sottoposti a indagini ad hoc. La diagnosi infatti si basa su test ed esami, con risultati che solo un esperto può interpretare. Servono anche per escludere altre forme di demenza. Nel 10-15% dei casi si può trattare di forme curabili perché sono causate, ad esempio, da una carenza come quella da vitamina B12. Oppure di demenza vascolare, cioè provocata da problemi nella circolazione del sangue nei vasi cerebrali.

I test e gli esami utili per la diagnosi

Oggi per la diagnosi c’è un iter stabilito a livello internazionale. «La persona viene sottoposta a test neuropsicologici», spiega Massimo Filippi, Direttore dell’Unità Operativa di Neurologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. «Sono utili per capire la gravità della malattia e l’impatto sulle attività della vita quotidiana. La seduta dura circa un’ora e mezzo e i test vengono eseguiti da un neuropsicologo». Attenzione a non confonderli coi test per la memoria che si trovano in rete. Quelli che vengono effettuati in ospedale sono schemi messi a punto da esperti, e costruiti per le diverse funzioni cognitive.

«Il passo successivo è la risonanza magnetica, utile per valutare la localizzazione e l’entità del danno cerebrale» aggiunge il professor Filippi. «Le zone già colpite dalla malattia infatti sono atrofiche. A questo esame può essere affiancato quello per la valutazione del liquor spinale. I risultati permettono di dosare la proteina chiamata TAO e le beta-amiloidi. In caso di malattia, la prima risulta aumentata, in particolare nella sua forma fosforilata, la seconda è ridotta. Se è necessario per avere più chiarezza, il paziente viene infine sottoposto alla PET che ci consente di osservare il metabolismo cerebrale e/o la deposizione di amiloide nei tessuti».

Non sempre invece sono utili i test genetici. «Servono, certo, ma in casi limitati» sottolinea il professor Filippi. «Le forme genetiche riguardano circa l’1% dei casi di Alzheimer e colpiscono generalmente soggetti giovani. Sappiamo che sono causate da più geni, ma al momento le alterazioni note sono ancora poche, bisognerà aspettare altre ricerche».

La prevenzione dell’Alzheimer

I ricercatori hanno anche socchiuso una porta sulla prevenzione. «Un studio finlandese ha prodotto risultati importanti sul ruolo dello stile di vita» sottolinea Antonio Guaita, direttore della Fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso, Milano. «I ricercatori hanno visto che associando la dieta all’attività fisica, si ottiene una riduzione di probabilità di Alzheimer, oltre che di altre forme di demenza. Altri lavori scientifici hanno poi dimostrato che i fattori protettivi si potenziano tra di loro e hanno un ruolo primario in età adulta. Questo vuol dire, mangiare in modo equilibrato, praticare con regolarità un movimento proporzionato alle proprie forze, crearsi dei break dalla vita stressante».

Col trascorrere degli anni inoltre, cambiano le priorità e dopo i 70 anni assume un ruolo primario, nella difesa dall’Alzheimer, il movimento. E non solo. «In chi è sano sembra essere protettivo anche avere qualche chilo in più» aggiunge il professor Guaita. «Le ragioni non sono ancora ben chiare, ma potrebbe esserci un legame col rallentamento del metabolismo, un meccanismo che scatta proprio a causa del sovrappeso. A patto ovviamente di evitare l’obesità».

Sì anche ai giochi di memoria, ma da fare in compagnia. «Il cervello ha bisogno di socialità» conclude il professor Guaita. «Giocare da soli, invece, provoca uno stato di autocompetizione che causa uno stress negativo e un aumento di ormoni come il cortisolo, che fanno male alla memoria e al cervello».

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