Alzheimer, la speranza è nella diagnosi precoce

La Pfizer abbandona la ricerca sull'Alzheimer ma ciò non significa che la scienza si stia fermando. Sono in corso 50 studi e si aprono nuove ipotesi sulle cause della malattia

L’azienda farmaceutica multinazionale Pfizer ha appena annunciato la sospensione della ricerca relativa a farmaci per l’Alzheimer. I cospicui investimenti nella ricerca, hanno dichiarato dall’azienda, non hanno corrisposto a risultati incoraggianti. E la notizia ha gettato nello sconforto chi sa cosa significhi avere una persona cara con questa malattia. Non è però il primo caso, perché negli anni passati anche altre aziende hanno fallito. Perché? 

Perché la ricerca sull’Alzheimer è così faticosa?

Le ragioni per cui la ricerca spesso fallisce possono essere diverse. La premessa doverosa è che il cervello è un organo complesso: si sa ancora poco sui meccanismi che ne provocano la degenerazione. Inoltre la ricerca in questo ambito è molto costosa e, dicono in parecchi, non ci sono raccolte fondi così consistenti come avviene in altri ambiti.

C’è però un altro motivo. «I risultati dei lavori condotti finora ci dicono che le sperimentazioni con maggior probabilità di successo sono quelle che avvengono nelle fasi iniziali della malattia» interviene Sandro Iannaccone, primario di Riabilitazione specialistica – disturbi neurologici, cognitivi e motori dell’Ospedale San Raffaele di Milano, dove col suo gruppo ha in corso uno studio internazionale sull’Alzheimer. «Purtroppo però la diagnosi precoce richiede esami sofisticati e piuttosto costosi, che rappresentano l’unica strada al momento per distinguere l’Alzheimerin fase iniziale da altre forme di demenza. Non tutte le sperimentazioni prevedono questi protocolli: di conseguenza, si rischia facilmente di ottenere risultati distorti e di chiudere la ricerca prima del tempo previsto».

Ci sono studi in corso oggi?

Attenzione allora se viene offerta l’opportunità di entrare in uno studio. Prima di tutto, è necessario essere sottoposti a un percorso diagnostico che prevede i test cognitivi ed esami quali la risonanza magnetica cerebrale col mezzo di contrasto e la Pet cerebrale. Se poi viene confermata la diagnosi, è possibile valutare se entrare o meno nello studio. Al momento sono circa 50 i nuovi principi attivi oggetto di studio, con risultati che fanno ben sperare. Certo, non guariscono dall’Alzheimer perché purtroppo non è ancora possibile riparare i danni. Ma, di sicuro, permettono di rallentare la malattia, a tutto vantaggio della qualità di vita.

Esistono nuove ipotesi sulle cause della malattia?

I fallimenti, però, hanno dato vita a risvolti positivi: lo sviluppo di nuove ricerche sulla malattia. Al momento i meccanismi che portano all’Alzheimer sono ancora confusi. La teoria più accreditata è che l’ippocampo (la zona del cervello dov’è la “centralina” della memoria) perda gradualmente la capacità di gestire la dopamina, il neurotrasmettitore che coordina il movimento, il sonno, l’attenzione, la memoria. Da qui, i sintomi caratteristici della malattia.

Quali possono essere i primi segnali della malattia?

Ma una nuova ipotesi si sta facendo strada. «Per la prima volta abbiamo identificato un’area profonda del cervello che si “ammala” molto precocemente e prima dell’ippocampo», spiega Marcello D’Amelio, coordinatore dello studio e professore di fisiologia umana e neurofisiologia dell’università Campus Bio-Medico di Roma. «Qui, sono presenti particolari neuroni che iniziano man mano a morire. E danno il via a sintomi poco considerati fino ad oggi nella diagnosi precoce, cioè bruschi cambiamenti di umore e apatia». I risultati di questa ricerca rappresenteranno probabilmente la base per lo studio di nuove molecole, con l’obiettivo di bloccare questo meccanismo.

Oggi si può rallentare la malattia? 

Insomma, il fermento nel campo della ricerca è parecchio. E in attesa di nuove informazioni sui meccanismi della malattia, la ricerca sta battendo anche strade, che hanno come obiettivo quello di rallentare l’Alzheimer. Come la stimolazione neurosensoriale. Gruppi di ricerca della Fondazione Santa Lucia di Roma hanno per esempio sviluppato, anche con il supporto di tecnologie computerizzate, dei percorsi di stimolazione della memoria e dell’attenzione. «Si spinge il cervello a far fronte alla neurodegenerazione, compensandone i danni», interviene il professor D’Amelio. «In questo modo, si rallenta il processo cognitivo. Certo, non è una cura risolutiva. Ma indubbiamente permette al paziente di guadagnare anni di buona qualità di vita».

Cosa danneggia il cervello anche in età giovanile?

Oggi inoltre sta sempre più prendendo forma il concetto di riserva cognitiva. «Si sta concretizzando l’ipotesi che se il cervello viene stimolato in età giovanile, si crea una struttura solida, che diventa un fattore di protezione contro la malattia», afferma il professor D’Amelio. «Questo significa non solo studiare, ma anche imparare fin dall’età giovanile ad allenare le funzioni cognitive e tenere lontani i fattori che rappresentano grossi pericoli per il cervello, cioè l’alcol e le droghe, anche leggere. Un utilizzo continuo, infatti, dicono i dati, provoca un accumulo di danni a livello cerebrale con un aumento delle probabilità che nell’adulto si sviluppi un processo di demenza.

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