Davvero la moda sfrutta il lavoro nero?

Un’inchiesta del New York Times sul lavoro nero in Puglia scatena la polemica: proviamo a fare chiarezza su un’etichetta che rappresenta il meglio (e il peggio) del nostro Paese.

A scatenare il dibattito è stato un articolo del New York Times, che in concomitanza con l’inizio della settimana della moda di Milano pubblica un’inchiesta sulle lavoratrici a nero che, in Puglia, realizzano i capi delle più conosciute griffe internazionali. I marchi coinvolti sono tanti: Louis Vuitton, Prada e Salvatore Ferragamo fra gli altri. Tra le 60 donne intervistate c’è chi racconta di guadagnare 10 euro per cucire due cappotti al giorno (tempo di lavorazione per ogni capo: dalle 4 alle 5 ore), chi di arrotondare il lavoro in fabbrica cucendo in casa capi firmati per 5 euro all’ora, tre ore al giorno di lavoro in più. Senza contare quello domestico, naturalmente. Maria Colamita, di Ginosa, racconta che dieci anni fa cuciva vestiti da sposa per 1.50-2 euro all’ora, mentre adesso, a 53 anni, lavora come domestica per 7 euro all’ora. Colamita è una delle poche a dichiarare il suo nome, perché quel lavoro non lo fa più, le altre parlano in forma anonima.

D’altronde, la regola salentina (il Nyt scrive “the Salento method”) vuole che «si accetti di rinunciare ai propri diritti pur di lavorare», come dice Saverio Romano, avvocato impegnato in una complicata causa contro Tod’s e uno dei suoi terzisti, Euroshoes. Le reazioni non si sono fatte attendere: nella nota ufficiale della Camera della Moda, guidata da Carlo Capasa (anche lui salentino, per inciso), si parla di «attacco alla filiera italiana» e amarezza di fronte a un racconto parziale e di «un caso circoscritto». Ma cosa significa oggi “made in Italy”? Ne abbiamo parlato con tre esperte, due delle quali citate dall’inchiesta, per provare a fare un po’ di chiarezza.

Le donne cuciono abiti in casa dagli anni ’70

«L’articolo del Nyt giustamente riconosce che l’ultima statistica sul lavoro irregolare risale al 1973. L’unica statistica recente citata è di Tania Toffanin [autrice di Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, Ed. ombrecorte, ndr] che stima che “attualmente ci sono da 2000 a 4000 lavoratori irregolari nella produzione di abbigliamento”. Se si considera il contesto di una grande industria, che impiega 620.000 persone in 67.000 aziende, emerge chiaramente come i lavoratori irregolari rappresentino un’anomalia» questa la replica Camera della Moda al Nyt.

Sociologa del lavoro presso l’Università di Padova, Toffanin mi dice al telefono di essere un po’ sorpresa che, nel 2018, ci si sorprenda del lavoro a domicilio nell’industria manifatturiera. Ne parlavano già Karl Marx nell’800 e pure Roberto Saviano in Gomorra. «Questa particolare forma di produzione ha storicamente riguardato perlopiù le donne, alle quali [non solo in Italia, ndr] mancavano servizi di sostegno nella cura dei familiari, in particolar modo nelle aree rurali, e che quindi vedevano nell’attività organizzata a domicilio la modalità più funzionale per tenere assieme lavoro di cura non retribuito e lavoro per le aziende, anche in forma regolare. Il lavoro a domicilio, infatti, è regolato dai contratti nazionali di lavoro e monitorato dai sindacati».

È dello stesso parere Elda Danese, docente presso lo Iuav di Venezia specializzata in cultura visuale, tecnologie tessili e made in Italy: «Negli anni Settanta molti indumenti di maglieria pregiata erano prodotti in questo modo. Bisogna considerare l’aspetto sociale [della questione]: una volta quello della casalinga non era considerato un lavoro, e [lavorare a domicilio] permetteva di sentirsi appagata e di essere riconosciuta dal paese come “brava”». In certe parti d’Italia (e del mondo) è ancora così, con l’aggravante del ritmo di produzione: «Le tariffe di cottimo sono decise unilateralmente dal datore di lavoro sulla base dei propri tempi – specifica Toffanin – che spesso non tengono conto delle reali tempistiche di produzione. È questo che provoca lo sfruttamento». Due cappotti, otto-dieci ore di lavoro al giorno, dieci euro.

Le filiere di produzione sono miste

Com’è possibile che il fiore all’occhiello della manifattura italiana, la migliore al mondo, nasconda ancora oggi delle zone d’ombra di questo tipo? L’Italia è davvero paragonabile ai Paesi tristemente famosi per le fabbriche dello sfruttamento? Certamente no, se si parla della più ampia tutela del lavoratore e dei servizi di cui può usufruire, come la sanità pubblica e quel che resta del welfare, eppure c’è una consistente fetta di lavoro sommerso, troppo poco monitorata e difficile da inquadrare con precisione, dove le garanzie sono nulle e le paghe bassissime. Spiegarne l’esistenza in un’economia sviluppata come la nostra è un discorso complesso, che affonda le sue radici tanto nei cambiamenti economici degli ultimi decenni tanto nella peculiare struttura della moda italiana, che ha sempre faticato a costituirsi come un sistema culturale, educativo e produttivo. Sostiene Toffanin che «l’etichetta “made in Italy” è stata parecchio svuotata di significato, soprattutto dalla metà degli anni 2000, quando sono cessati molte intese internazionali [i cosiddetti Accordi Multifibre, stipulati per la prima volta nel 1974 e definitivamente decaduti nel 2005, ndr] che regolavano l’importazione di fibre e di prodotti dai Paesi dell’aria asiatica e dalla Cina in particolare» al fine di evitare il crollo dell’industria tessile dei paesi industrializzati di fronte ai prezzi concorrenziali dei paesi in via di sviluppo.

L’industria non ha fatto in tempo a riformularsi che è arrivata la crisi economica del 2008. Secondo Toffanin, manca a tutt’oggi «una ricostruzione approfondita di come il sistema della moda in Italia si sia trasformato negli ultimi vent’anni per capire, ad esempio, l’impatto della crisi. Servirebbero studi settoriali incrociati con studi territoriali» perché dei distretti produttivi sappiamo troppo poco. Eccola spiegata bene, quell’incapacità di fare sistema: l’assenza di studi specialistici che denuncia la condizione subalterna della disciplina-moda, che ancora oggi non gode di piena autonomia e adeguato supporto in ambito universitario. Un tessuto industriale, quello italiano, «formato storicamente da piccole e medie imprese alle quali lo Stato non si è mai interessato. Solo in tempi recenti le istituzioni hanno riconosciuto il valore del “brand” made in Italy, perlopiù in termini di propaganda» aggiunge Danese. Ancora più dura Deborah Lucchetti di Abiti Puliti, il braccio italiano di Clean Clothes, una rete di più 250 partner che mira al miglioramento delle condizioni di lavoro e al rafforzamento dei diritti dei lavoratori dell’industria della moda globale: «Come dimostrano i nostri report, le filiere di produzione oggi sono sempre miste, composte. Made in Italy significa che io non produco solo presso la mia azienda, ma produco anche nel Sud Italia affidandomi a dei terzisti, e produco nella mia azienda in Albania, ma alle condizioni albanesi, nella mia azienda in Serbia, ma alle condizioni serbe».

Più che di sistema-Italia, allora, dovremmo parlare di sistema-mondo. D’altra parte, sono pochi i marchi italiani rimasti indipendenti (Prada, Giorgio Armani, Max Mara e Dolce & Gabbana, per esempio), mentre la maggior parte delle nostre firme fa capo ai gruppi del lusso francese, come LVMH (che possiede Fendi, Bulgari e Loro Piana fra gli altri) e Kering (che controlla Gucci, Bottega Veneta e Pomellato) o a fondi internazionali, come nel caso di Valentino e il fondo del Qatar Mayhoola. Cos’è made in Italy allora? Il valore di un brand, la sua storia o il metodo artigianale, lo stesso in cui le multinazionali investono come hanno fatto Richemont e Kering nel distretto della pelletteria toscano? Se le scuole per maestri artigiani non le aprono gli italiani, allora lo faranno i francesi.

I costi bassi attirano investimenti

«Non bisogna fare l’errore di pensare che il problema siano le piccole-medie imprese né dobbiamo “meridionalizzare” la questione dello sfruttamento: queste cose succedono ovunque» continua Lucchetti. L’Italia è uno degli hub produttivi e distributivi delle più ampie filiere «che gli studiosi chiamano reti globali di fornitura. Abbiamo trattato questi temi nel nostro rapporto del 2017 Il vero costo delle nostre scarpe, che è poi il motivo per cui il Nyt ci ha contattato». Il tema reale, anche secondo la portavoce, è piuttosto l’asimmetria di potere che permette alle filiere internazionali e ai grandi marchi di determinare le condizioni di acquisto, e quindi di lavoro, di milioni di persone.

Questi meccanismi innescano una sorta di regola salentina generalizzata difficile da scardinare, anche se, come dichiarato sia da Kering che da LVMH, i marchi si impegnano nel controllare i propri terzisti. Si pensi al salario minimo, altro tema delicatissimo sollevato maldestramente dall’inchiesta del giornale americano e di cui si discute ora anche in Italia. Oggi il salario minimo e gli stipendi sono stabiliti attraverso negoziazioni e accordi tra sindacati e associazioni dei datori di lavoro, mentre laddove esiste il salario minimo per legge, come nei Paesi dell’Est Europa, è spesso più basso dello standard di vita considerato dignitoso.

Il basso costo, legalizzato, del lavoro «serve ad attirare i grandi investimenti di capitale», dice Lucchetti facendo riferimento al report del 2017 L’Europa dello sfruttamento. Toffanin segnala poi che negli ultimi anni «in Italia è drasticamente diminuita la pianta organica degli ispettorati del lavoro». Di fronte alla conta delle morti bianche nei primi tre mesi dell’anno, nel maggio 2018 La Repubblica scriveva di un sistema di controlli insufficiente in tutti i settori: «In giro per l’Italia ci sono solo 2.100 ispettori a controllare 4 milioni e 300 mila aziende, impedire loro di assumere in nero e di violare le norme di sicurezza». A questo si aggiunga la mancanza di politiche di orientamento industriale da parte dei molti governi italiani, che nel tempo hanno favorito un andamento anarchico dell’iniziativa imprenditoriale e, di conseguenza, un’economia che, senza analisi e confronto, «è abituata a “reagire” e non ad agire», dice Toffanin.

Il valore di una filiera e un nuovo approccio al consumo

Eppure, quell’etichetta un valore ce l’ha. La moda è un traino fondamentale della nostra economia e uno dei motivi per cui l’Italia è conosciuta e stimata all’estero. La narrazione zuccherosa del made in Italy, quella che si concentra su parole mantra come territorio, artigianalità e conduzione familiare e ignora le problematiche che pure questo modello comporta, è in ultima analisi una strategia a breve raggio d’azione, perché rischia di danneggiare quanto di migliore il nostro Paese può offrire. Se il Nyt può fare un’inchiesta che è un esempio di giornalismo, anche quello, globale e locale allo stesso tempo, sta a noi cogliere l’occasione per una riflessione più ampia su qualcosa che ci riguarda così da vicino. Bisognerà iniziare a farsi delle domande, anche da consumatori, un termine che a Lucchetti non piace proprio. Perché, mi dice, «fare la spesa è un’attività che cambia l’economia ed è perciò un atto politico». Il cittadino che consuma dovrà scegliere come investire il proprio potere d’acquisto, comprando meno e meglio. Ecco perché richiedere la trasparenza della filiera è nell’interesse di tutti, soprattutto se vogliamo che il made in Italy mantenga intatta la sua capacità di raccontare il modo d’essere di un Paese che, nel mondo, è sinonimo di bellezza.

I numeri

94,2 miliardi di euro Il fatturato del settore manifatturiero per il 2017, che comprende calzature, concia, pelletteria, pellicceria, occhialeria, oreficeria-gioielleria e tessile-abbigliamento +3,2% La dinamica di crescita rispetto al 2016 66.751 Le aziende attive sul territorio nazionale 581 mila Gli addetti ai lavori impiegati nel comparto manifatturiero (Fonte: Centro Studi di Confindustria Moda per Pitti Immagine, maggio 2018).

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