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Alzheimer: una diagnosi precoce rende la cura più efficace

Il 21 settembre in tutto il mondo si fa il punto sull'l'Alzheimer, la forma di demenza più diffusa. E sulle nuove ricerche per riconoscere i primi segni della malattia. Perché una diagnosi precoce rende i farmaci più efficaci e può regalare 5 anni di lucidità in più ai pazienti

«Sono io… Mi riconosci?». Arriva un momento, quando l’Alzheimer entra in famiglia, in cui ci si sorprende a fare domande come questa. Succede quando la malattia mostra il suo volto più crudo e, giorno dopo giorno, svuota memoria e consapevolezza, distrugge i legami lasciando soltanto il corpo di chi si ama mentre la mente sembra essere in un altrove impossibile da raggiungere.

Il morbo, di cui il 21 settembre si celebra la giornata mondiale, colpisce in Italia circa 600.000 persone, ancora in attesa di una cura definitiva, e rappresenta il 60% di tutte le forme di demenza. «In Europa i malati sono 14 milioni e con l’invecchiamento della popolazione si stima che raddoppieranno nel 2030. Questo equivale a 30 milioni di famiglie in ginocchio e a costi sanitari e sociali altissimi» spiega Monica Di Luca, vice presidente dell’Associazione italiana ricerca Alzheimer (AirAlzh) e presidente di European brain council (Ebc).

Per la Giornata mondiale dell’Alzheimer quest’anno ci si è concentrati sul modo di comunicare la malattia: se ne parla ancora troppo poco, ma informare aiuta a prevenire e favorisce le diagnosi precoci. Per seguire eventi e iniziative, l’hashtag della giornata è #LetsTalkAboutDementia

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Si cercano i meccanismi che scatenano l’Alzheimer

Oggi esiste un farmaco di elezione per la cura dell’Alzheimer: aiuta a rallentare la malattia in fase conclamata, ma non la blocca. «I tentativi di trovare medicinali più efficaci hanno finora dato risultati deludenti e la ricerca si sta muovendo anche in altre direzioni» continua Monica Di Luca. «Molte sperimentazioni si stanno focalizzando sulla comprensione dei meccanismi che scatenano la patologia, con l’obiettivo di stabilizzarla prima che degeneri, un po’ come si è fatto con il cancro. Uno studio Usa ha dimostrato che intervenire nel periodo iniziale permetterebbe di fermarlo per 5 anni, un tempo enorme per un malato di Alzheimer».

Si punta dunque a studiare le prime “interferenze” che disturbano la comunicazione tra i neuroni e le strategie per rallentarne la distruzione. In Italia lo sta facendo, tra gli altri, la rete di ricercatori di AirAlz. Valentina Cantoni, psicologa alla Clinica neurologica dell’Università degli studi di Brescia, è una di loro. Con i suoi colleghi sta mettendo a punto un metodo di diagnosi precoce che utilizza i campi magnetici. Per individuare i circuiti colpiti dalla malattia si usa un macchinario che invia impulsi in alcune aree del cervello.

«Prima che il male si presenti con i suoi sintomi più gravi c’è una fase di decadimento cognitivo meno evidente. Provoca piccole perdite di memoria, difficoltà a esprimere alcuni concetti, momenti di confusione» spiega la dottoressa Cantoni. «Intervenire in questo momento è importantissimo, ma non sempre è facile. Esistono tecniche diagnostiche affidabili, come la Pet amiloide o l’analisi del liquido cerebrospinale, ma sono costose e invasive, e non si possono estendere su larga scala. Invece questa metodica è veloce, dà una fotografia esatta e aiuta a procedere subito con interventi su misura. Ogni paziente di Alzheimer è un caso a sé: più la terapia è personalizzata, maggiori sono le probabilità di avere risultati».

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Riconoscere i sintomi iniziali dell’Alzheimer aiuta a compensarli

Avere un vantaggio temporale aiuta anche i malati a combattere il morbo. «Se le difficoltà vengono messe a fuoco subito la persona che ne soffre può imparare a compensarle. Per esempio: chi tende a perdere l’orientamento nel tempo può usare “trucchi” come guardare fuori dalla finestra per capire in che stagione è» spiega Virginia Borsa, ricercatrice AirAlzh alla Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia, dove sta sperimentando un metodo di diagnosi che utilizza come marcatori i deficit del linguaggio.

«Chi soffre di Alzheimer fa fatica a riconoscere o nominare determinati concetti, per esempio gli esseri viventi, o tutto ciò che è astratto, eccetto le emozioni. Attraverso test su persone che hanno lievi difficoltà di memoria, in cui chiediamo loro di accoppiare alcune parole, vogliamo capire se questi problemi possono diventare spie per individuare la patologia agli esordi. Sono informazioni preziose anche per i familiari, perché man mano che il linguaggio dei malati si impoverisce comunicare con loro diventa sempre più difficile».

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Le famiglie diventano parte della cura

«La demenza non è un male che puoi sconfiggere in laboratorio. Non possiamo dire ai parenti: questa è la terapia, andate a casa. Con l’esperienza si è capito che la malattia va affrontata prendendosi cura del paziente e dei suoi cari. In corsia diciamo loro come interagire con lui, dove spingere per tenere allenata l’area del cervello che funziona e dove lasciar perdere» aggiunge la dottoressa Cantoni.

«Se un malato di Alzheimer dice “Questa non è casa mia” è inutile cercare di convincerlo del contrario, si rischia la crisi. I caregiver devono prendere atto di ciò che si è perduto e trovare strategie per mantenere un equilibrio» interviene Alessandra Mosca, dottore di ricerca in Neuroscienze e Imaging all’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara e volontaria al Centro di riabilitazione per le demenze dell’Ospedale di San Valentino in Abruzzo.

C’è uno stile di vita che rallenta il decadimento

Per mettere un freno al male si usano tutte le armi disponibili: dai farmaci a tecniche come la stimolazione cerebrale a corrente elettrica, alla riabilitazione cognitiva. Funzionano soprattutto quando l’Alzheimer non ha ancora fatto troppi danni. Come sa bene la dottoressa Mosca, che sta sperimentando un training per i pazienti che non hanno una demenza conclamata. Si esercitano con una app, “Lumosity”, facendo giochi di logica, attenzione, memoria e velocità, e attività fisica due volte a settimana. Se i risultati saranno quelli sperati il training darà vita a protocolli da assegnare a casa o durante le sedute di riabilitazione.

«Ginnastica per la mente, vita sociale, attività fisica e corretta alimentazione possono frenare il decadimento» spiega la ricercatrice. «Per questo la prevenzione è vitale: dopo i 75 anni andrebbe fatta una visita annuale per valutare le funzioni cognitive. E i parenti devono fare la propria parte. La diagnosi di demenza è uno shock, ma per non soccombere bisogna accettarla e cercare di gestirla con le risorse che restano. Me lo ha insegnato il marito di una paziente, che un giorno mi ha detto: «Mia moglie non mi riconosce più. Ma io riconosco ancora lei. E questo basta».

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I NUMERI DELL’ALZHEIMER

1 milione di italiani è ammalato di demenza.

60% soffre di Alzheimer.

3 milioni di persone sono coinvolte nell’assistenza a un familiare.

8% degli over 65 ha una forma di demenza. La percentualesale al 20% dopo gli 80 anni.

(fonte: Epicentro Iss)

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