Donna anziana in casa

Alzheimer e Parkinson: migliora la diagnosi precoce

Uno studio sottolinea i vantaggi dell’olio di noci per contrastare Alzheimer e Parkinson, mentre si fanno passi avanti nel test per scoprire le demenze allo stadio iniziale

La diagnosi precoce è fondamentale nella gestione di Alzheimer e Parkinson, due patologie differenti, ma che secondo gli esperti potrebbero essere molto simile da un punto di vista biologico. Entrambe, ad esempio, causano disturbi del comportamento e perdita della memoria, e possono interessare in maniera preponderante la popolazione anziana. Da qui l’esigenza di migliorare le diagnosi, in modo che siano sempre più accurate e soprattutto precoci. Da questo punto di vista, di recente sono arrivate due notizie, che hanno a che fare con test per individuare le malattie.

Nello stesso tempo, diventa sempre più fondamentale agire sulla prevenzione e, anche sotto questo aspetto non mancano le novità, a partire dai benefici della Dieta mediterranea e dell’olio di noci in particolare. Da una ricerca, pubblicata in aprile sulla rivista Nutriens, emerge infatti che l’olio estratto da questo tipo di frutta secca aiuterebbe a ridurre la formazione delle placche di amiloide nel cervello, associate alla malattia di Alzheimer.

L’olio di noci e l’Alzheimer: cosa dice lo studio

Dall’ultima ricerca in materia di Alzheimer emergerebbe come l’olio di noci sia in grado di influenzare la funzione dei mitocondri all’interno delle cellule cerebrali, diminuendo la formazione di alcuni beta-amiloide responsabili delle placche nel cervello, correlate all’insorgenza dell’Alzheimer. «In realtà più che una novità si tratta di una conferma: è noto che la frutta secca e le noci in particolare contengono una serie di sostanze, ad esempio gli acidi grassi polinsaturi, che sono protettivi per il sistema nervoso. Uno dei modi per prevenire forme neurodegenerative, infatti, è l’alimentazione e la frutta secca viene considerata una delle basi per la prevenzione proprio per il suo contenuto di queste sostanze, insieme alla verdura» spiega Elio Scarpini, Professore di Neurologia, Direttore del Centro Alzheimer e Sclerosi Multipla “Dino Ferrari” dell’Università di Milano – IRCCS Fondazione Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico.

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«È un dato accertato, infatti, che la dieta può aiutare a prevenire la malattia di Alzheimer, specie la dieta mediterranea, che prevede un adeguato consumo di frutta, verdura, olio do oliva, pesce, ma anche frutta secca e frutti rossi. La ricerca in questione dimostrerebbe che il consumo di frutta secca, in particolare di noci, contribuisce a modificare la funzione dei mitocondri e dunque ad abbassare la beta amiloide, correlata alla formazione delle placche nel cervello associate all’Alzheimer. Ma è soprattutto una conferma di quanto già emerso da studi epidemiologici molto ampi sull’azione positiva della dieta mediterranea nel ridurre i disturbi cognitivi» sottolinea il neurologo.

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Il primo test “veloce” per l’Alzheimer

Nel frattempo, per quanto riguarda l’Alzheimer, la Food and Drug Administration statunitense ha autorizzato la commercializzazione del Lumipulse G β-Amiloid Ratio (1-42/1-40), ossia il primo test per la diagnosi precoce dell’Alzheimer, destinato a pazienti adulti, in particolare dai 55 anni in su, che presentino un deterioramento cognitivo compatibile con la malattia. «Si tratta di uno strumento che permette un vantaggio pratico, non clinico: la macchina per effettuare il calcolo della quantità di amiloide nel liquor, cioè il liquido cefalo rachidiano che si trova nel cervello, esiste già. La differenza è che finora si dovevano effettuare due esami, poi valutati dal personale medico, mentre ora la macchina unisce automaticamente. È sicuramente un test molto utile perché quando è bassa l’amiloide nel liquor c’è una probabilità elevata di essere in presenza di morbo di Alzheimer, ma va chiarito il test di per sé non dà certezze: va messo in rapporto con altri dati clinici del paziente» spiega Scarpini.

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Un test innovativo per diagnosticare anche il Parkinson

Secondo gli studi più recenti, pur interessando parti del cervello diverse, le malattia di Parkinson e l’Alzheimer potrebbero avere alcuni elementi in comune. Per esempio, per i pazienti parkinsoniani l’età avanzata, i disturbi precoci dell’equilibrio e la durata della malattia rappresentano fattori di rischio nei confronti dello sviluppo di una demenza e questa prevale nel 30% dei casi di Parkinson in persone over 65 anni. Anche in questo campo, nel frattempo, è stato messo a punto un test diagnostico precoce, da parte dell’Università di Bari, insieme all’Istituto nazionale di Fisica nucleare e alla pia Fondazione Panico.

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Lo studio, pubblicato sulla rivista Genes, mostra come possa fornire uno strumento diagnostico più accurato: «La ricerca riguarda l’utilizzo di dati genetici. In particolare ad oggi si sa che ci sono geni che possono influenzare lo sviluppo del Parkinson, anche se non ne sono la causa diretta: non lo provocano, quindi, ma possono contribuire allo sviluppo della malattia – spiega Scarpini – La ricerca si è basata sullo sviluppo di un algoritmo, che ha permesso di distinguere, partendo da campioni di sangue, tra soggetti sani e soggetti che invece potrebbero sviluppare la patologia, proprio a partire dal sequenziamento genetico. Questo potrebbe aiutarci ad arrivare a una diagnosi precoce».

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Occorrono anche farmaci più efficaci

Poter intercettare precocemente una malattia neurodegenerativa ha una sua importanza, anche se non basta. Nel caso del Parkinson, infatti, occorrono anche terapie sempre più mirate ed efficaci: «Al momento la cura è sintomatica, cioè mira a ridurre l’intensità dei sintomi, come per esempio il tremore, la rigidità muscolare o il rallentamento motorio. Ma non esistono ancora cure che agiscano sulle cause, che possano rallentare o bloccare la malattia. È bene chiarire anche un altro limite: oggi si interviene fornendo quel neurotrasmettitore che, nei pazienti, non è prodotto in quantità sufficienti, ma col tempo l’efficacia dei farmaci tende a ridursi e possono anche comparire effetti collaterali. L’obiettivo, quindi, è usarne la dose minima efficace per tenere sotto controllo i sintomi. In futuro si spera di poter disporre di cure che intervengano anche sulle cause» conclude il professor Scarpini.

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