Sbarca nel nostro Paese Primark, colosso della moda low cost concorrente di Zara e H&M. Perché alcune catene di abbigliamento riescono a tenere prezzi così bassi? Ecco 5 domande per capirlo

Abiti a piccolo prezzo, punti vendita attraenti, campagne promozionali giovani e smart. Negli ultimi 5 anni i brand della moda low cost sono cresciuti in media del 20%, secondo uno studio della società di consulenza Bain&Co. Per questo l’arrivo in Italia dell’irlandese Primark, colosso del fast fashion appena sbarcato all’Arese Shopping Center (Mi), non stupisce: anche da noi le catene come H&M e Zara vanno fortissimo.

«Il loro sistema produttivo ha rivoluzionato le abitudini dei consumatori» dice Francesca Romana Rinaldi, docente di Fashion management all’università Bocconi di Milano. «Ha portato le persone nei negozi una volta a settimana invece di una a stagione. Da una parte spinge verso l’approccio usa-e-getta, dall’altra offre l’accesso a prodotti di tendenza con un buon rapporto qualità-prezzo». In ogni caso, davanti a un abito a 7 euro, qualche domanda è d’obbligo.

COSA C’È DIETRO PREZZI TANTO ECONOMICI? «Le cosiddette economie di scala, cioè il fatto che vengono messe in vendita grandi quantità di abiti e accessori» spiega Francesca Romana Rinaldi. «Nei negozi, poi, i clienti si servono da soli, quindi si risparmia sul personale. E la produzione, in genere, è localizzata in Paesi in cui il lavoro costa poco ma la logistica è efficiente».  Come l’India o il Bangladesh, dove chi è impiegato nei laboratori tessili è però molto spesso sfruttato. Inoltre, questi marchi adottano il sistema produttivo del “make-to-stock”. Cosa vuol dire? «A differenza delle aziende tradizionali, acquistano i materiali necessari alla produzione prima di conoscere quello che il mercato richiede. Così sono più veloci nella fabbricazione e portano nuovi abiti in negozio ogni settimana». La rapidità è la chiave del successo: fa vendere e mantiene i prezzi bassi.

PERCHÉ LE COLLEZIONI CAMBIANO SEMPRE? La gamma dei prodotti non segue più la stagionalità primavera-estate e autunno-inverno. «Si chiama “rolling collection”» spiega Stefano Sacchi, consulente di brand e autore di Fashion Puzzle (Franco Angeli). «Lo scopo è dare al consumatore la sensazione di comprare una novità. E deve sbrigarsi a farlo perché la settimana dopo potrebbe essere tardi. Per riuscire a sfornare un trend dopo l’altro, il fast fashion introduce in anticipo nelle proprie collezioni tutto ciò che si vede sulle passerelle delle griffe. Se queste ci mettono mesi a portare in negozio gli abiti delle sfilate, le aziende low cost impiegano al massimo 10 giorni».

LE GRIFFE SUBISCONO LA CONCORRENZA? Sì, perché quando D&G, Prada o Valentino portano le collezioni in negozio la gente ha già visto colori, forme e fantasie nelle vetrine di Zara, Terranova o Imperial. «Sono stati proprio i grandi marchi a innescare il fenomeno: per ottimizzare gli investimenti, crearono già negli anni ’80 linee più abbordabili, per esempio Armani con i prodotti Emporio» spiega Emanuela Mora, docente di Sociologia della comunicazione alla Cattolica di Milano ed esperta di moda. Aggiunge il consulente Stefano Sacchi: «Oggi, per resistere, le griffe devono copiare le strategie del low cost e cercare di rinnovarsi non più solo 2 volte l’anno con refresh di collezione, capsule collection e limited edition».

UN ABITO LOW COST È DI QUALITÀ? Se non arriva neanche a 7 euro è un campanello d’allarme: forse un fornitore non è stato pagato a sufficienza o le materie prime sono scadenti. Ma non è sempre così. «Prendiamo i brand come l’italiano Dixie, che produce in uno dei centri del pronto moda italiano, il Macrolotto di Prato» dice Francesca Romana Rinaldi della Bocconi. «Il luogo è strategico per accelerare i tempi dall’ideazione alla distribuzione e poter produrre e vendere a km zero». Risparmiando in questi passaggi, anziché sui tessuti, si possono realizzare prodotti molto economici ma comunque di buona qualità.

LA MODA FAST SPINGE A COMPRARE DI PIÙ? «Se aumenta l’offerta, sale anche la tendenza a consumare. E si innesca una sorta di bulimia dell’acquisto» dice Emanuela Mora della Cattolica di Milano. «Una fascia di persone, in realtà, è arrivata al rigetto e si orienta verso la moda critica e sostenibile. La maggior parte, però, preferisce una formula mista: accessorio griffato su look basic. Poi ci sono i ragazzi, ai quali gran parte dei marchi low cost si rivolgono: i pezzi di H&M o Primark, per esempio, non hanno solo il vantaggio di costare poco. Possono essere mixati, scambiati e sovrapposti come tanti mattoncini per creare il proprio stile. Perché oggi il modo di vestire riflette il modo di pensare e comunicare. Unico, personale e ibrido».

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